Mordecai Richler (1931-2001) fu ritenuto da moltissimi, per un breve periodo tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila, il vecchio saggio dello Zeitgeist: capace di interpretare e vivere lo “spirito del tempo”, perché quello stesso spirito aveva anticipato, preceduto, contribuito attivamente ad istituire. Erano gli anni nei quali nelle biblioteche e nelle librerie – queste odierne sconosciute – si faceva la fila per una copia de La versione di Barney, un geniale romanzo anomalo che dettò un immaginario, diventò un bestseller e generò un film di discreto successo (alcuni milioni di dollari, i due terzi dei quali intascati proprio in Italia).
Il punto è che Richler non aveva inventato granché: dai tempi del gentiluomo Tristram Shandy, ideato da Laurence Sterne alla metà del XVIII secolo, la letteratura ha generato senza soluzione di continuità eroi tra il dandy e il bizarre, corrosivi, favolistici, tumultuosi. In una mescolanza di incubi privati, slang di quartiere, allucinazioni (non di rado alcoliche) e sciarade ininterrotte, sbraitando accuse indistinte al senso morale comune: quello, per sua definizione pruriginoso e stantio, sorpassato e asfissiante; la critica contraria, tuttavia, a propria volta manierata, routinaria, già sentita.
E proprio quello era ciò che cercava lo spirito del tempo a fine anni Novanta: non c’era stato l’11 Settembre, e nemmeno il 7 Ottobre; si parlava di Organizzazione Mondiale del Commercio, ma la Cina non faceva paura e la Russia sembrava finalmente attaccata al treno occidentale, come la Turchia. Questo apparente trionfo liberale smuoveva la coscienza dei liberal, orfani delle narrazioni su cui si erano formati: il libertarismo di destra era dovuto scendere a patti con lo Stato, accettandone in sostanza codici e canoni; quello di sinistra si rifugiava nell’alter-mondialismo perché aveva perso la capacità di vivere il suo ambiente, il suo quartiere, la sua realtà.
Richler arriva buon ultimo e in un certo senso davvero prima: aveva creato un suo pubblico da tempo. Il primo successo (stavolta solo americano) era stato L’apprendistato di Duddy Kravitz, altro personaggio memorabile e a memorabile rischio di confusione col vissuto del suo autore, che, davanti a tanto globalismo e a tantissima vanagloria cosmopolitica, in fondo faceva il flaneur dagli spalti rassicuranti dei soliti vicoli, locali, negozietti, edicole, scantinati, ristoranti. Un libro del 1959 che non a caso in Italia viene pubblicato, con intuito e qualità, dai lungimiranti tipi di Adelphi nel 2006: a metà strada tra il romanzo e il film che segnano l’eresia (apparentemente) anarchica e antagonista di quella generazione.
Da un certo punto di vista, il Richler degli anni Cinquanta e Sessanta è già persino più dotto dell’editorialista enciclopedico che sarà negli anni Ottanta e dell’oggetto di culto che diverrà a fine secolo. Lì davvero le posizioni sono scomode: si scaglia in anticipo su tutti contro l’ebraismo ortodosso, soprattutto quello non israeliano, che nel resto del mondo è in effetti e soprattutto agenzia educativa e narrazione storica. Si scaglia contro la cultura della religiosità ebraica in quanto tale, ma la sua origine gli aliena ogni facile accostamento di antisemitismo (non che qualcuno non ci provi). E in anticipo su tanti critici o pentiti del multiculturalismo, Michael Ignatieff e Ian Buruma su tutti, prende di mira il multiculturalismo del Canada francese, fondato sull’imperativo di includere chiunque; individui che poi, unendosi solo con i loro simili, formeranno le celle di un alveare.
Nella critica di Richler, del resto, non manca l’attacco all’ebraismo secolare, mondano, completamente adagiatosi nell’American Dream del successo a oltranza. Titoli come Quest’anno a Gerusalemme, il dolente St. Urbain’s Horseman, che commemora i romantici legati alle categorie belliche del fascismo e dell’antifascismo, e proprio i due capolavori di Barney e Duddy, scritti a quarant’anni di distanza, sono letture acide, ritmate, ammirevoli. Oggi però non possono non sembrare pagine d’archivio, in un mondo in cui il fondamentalismo è il relativismo a ogni costo (l’islamista che assegna a sé il diritto di uccidere, il complottista che si sente l’unico in grado di giudicare). E la sua eresia contro gli assoluti è forse scolorita. La bella letteratura tuttavia sopravvive, e per fortuna, al vuoto di spirito critico che denuncia.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI