In occasione di una prossima pubblicazione che raccoglie dieci discorsi tenuti dal grande scrittore russo Aleksandr I. Solženicyn tra il 1972 e il 1997 (We Have Ceased to See the Purpose. Essential Speeches of Aleksandr Solzhenitsyn, ed. by Ignat Solzhenitsyn, Notre Dame University Press, April 2025), Gary Saul Morson, professore nordamericano di slavistica (Northwestern University) e critico letterario, in un suo recente, corposo articolo rievoca il monito severo dato all’Occidente dal geniale uomo di lettere sopravvissuto all’inferno totalitario comunista: “Il totalitarismo da cui Solženicyn era scampato si profilava come futuro probabile dell’Occidente. Avendo scritto una serie di romanzi su come la Russia soccombé al comunismo, Solženicyn sentì tra noi il medesimo puzzo di marciume sociale e intellettuale. Pensò fosse suo dovere avvertirci, ma nessuno ascoltò. Oggi i suoi ammonimenti sembrano preveggenti. Abbiamo continuato a seguire il sentiero verso il disastro di cui egli aveva disegnato la mappa” (G. S. Morson, Solzhenitsyn Warned Us, in Commentary Magazine, July/August 2024).



“Solženicyn – afferma Morson – non si sarebbe sorpreso che, tre decenni dopo il collasso dell’URSS, gli intellettuali americani trovino di nuovo attraenti dottrine marxiste e semimarxiste. I giovani abbracciano il ‘socialismo democratico’, un’espressione che Solženicyn ritiene ‘tanto sensata quanto parlare di caldo glaciale’”. Ebbene, prosegue Morson, “oggi possiamo domandarci: perché così tanti esultano, o perlomeno non obiettano, quando assistono a folle inneggianti al sadico Hamas assetato di sangue? Forse per le stesse ragioni per le quali giovani russi prerivoluzionari un tempo celebrarono i terroristi che assassinarono cittadini innocenti? Avendo studiato la storia del suo paese, Solženicyn previde il processo che avrebbe condotto agli slogan odierni di ‘globalizziamo l’intifada’ e ‘con ogni mezzo necessario’. Egli ripetutamente mise in guardia dal pericolo che il passato della Russia può essere il futuro dell’America”.



Sul fronte mitteleuropeo le cose non vanno meglio. Intervistato per Die Welt, Philipp Peyman Engel, caporedattore del settimanale Jüdische Allgemeine, ha dichiarato: “Sì, l’estremismo di destra è un grosso problema. Ma riguardo al quotidiano odio contro gli ebrei, senza generalizzare, si deve riconoscere: sono gli islamisti, i musulmani secolari e gli estremisti di sinistra quelli che ci minacciano pesantemente, che ci rendono la vita un inferno. […] Noi come comunità – intendo noi tutti – e molti di coloro che devono prendere decisioni politiche nonché molti giornalisti abbiamo distolto lo sguardo per troppo tempo. L’odio ‘di destra’ contro gli ebrei viene subito condannato. A ragione. Ma l’odio contro gli ebrei da parte di tedeschi musulmani? Semplicemente non si deve parlarne, è fastidioso perché ci si potrebbe buscare l’accusa di essere ‘di destra’ […] Quelli che soffrono siamo noi. Deve pur essere possibile affrontare problemi evidenti. E noi abbiamo un problema enorme nel denominare musulmani e gente di sinistra come odiatori di ebrei” (U. Poschardt, Es sind Islamisten, säkulare Muslime und Linksextreme, die uns das Leben zur Hölle machen, Die Welt, 25.06.24; vedi G. Meotti, “Se Gaza brucia, bruciamo Berlino”. Succede in Germania. Ebrei sotto assedio, Il Foglio, 18.07.24).



Morson ricorda che, secondo Solženicyn, la causa profonda del declino dell’Occidente risiede nel credere che scopo della vita sia la “felicità individuale”, “da cui segue che la libertà e le istituzioni politiche democratiche esistano per facilitare il conseguimento di questo obiettivo”. Così ebbe a dire Solženicyn nel discorso pronunciato nell’Università di Harvard (8.06.1978): “Se, come sostiene l’umanesimo, l’uomo fosse nato solo per essere felice, non sarebbe nato per morire. Dato che il suo corpo è destinato alla morte, il suo compito sulla terra evidentemente dev’essere più spirituale: non un totale assorbimento nella vita quotidiana, non una ricerca del modo migliore di ottenere beni materiali […] Deve essere il compimento d’un permanente, incondizionato dovere così che il viaggio della vita possa diventare soprattutto un’esperienza di crescita morale: lasciare la vita da uomini migliori di quanto non fossimo quando iniziammo il viaggio”.

“Un passo ulteriore rispetto alla riluttanza a difendere il proprio paese – precisa Morson – è il vero e proprio disprezzo di esso. Ho pensato ai moniti di Solženicyn quando ho appreso la notizia di folle che quest’anno gridavano nei campus ‘Morte all’America!’. Per Solženicyn, questo è l’esito a cui il culto della felicità individuale, presto o tardi, necessariamente conduce. Nel far fronte alla minima frustrazione, costretti a sopportare un poco di avversità, o esposti ad un mondo di contingenza e sfortuna, coloro che sono stati educati a considerare la buona fortuna individuale come loro dovuta cercano qualcuno da incolpare. Prontamente abbracciano qualsiasi ideologia alla moda che divide il mondo in oppressi e oppressori, in buona gente innocente e in quella implacabilmente cattiva. Ma come Solženicyn notoriamente osservò in Arcipelago Gulag, la linea tra bene e male corre non tra gruppi ma ‘attraverso ogni cuore umano’”.

Per la nostra epoca, dominata dalla “dittatura del relativismo” (Benedetto XVI) e del desiderio, risuona estremamente urgente il richiamo di Solženicyn ad imparare a “limitare risolutamente i nostri desideri e pretese, a subordinare i nostri interessi a criteri morali”: “Se la personalità non è diretta verso valori più alti del Sé [self], allora essa viene inevitabilmente travolta da corruzione e declino… Possiamo far esperienza di vera soddisfazione spirituale unicamente non nell’afferrare, ma nel rifiutare di afferrare: in altre parole, nell’auto-limitazione”. La disposizione spirituale di fondo qui delineata da Solženicyn è, a nostro avviso, irriducibilmente alternativa a quella oggi dominante le società occidentali, laddove quest’ultima trova espressione emblematica nella delirante maledizione di Nietzsche contro chiunque non lanci il proprio desiderio oltre l’immaginazione.

In una conferenza tenuta a Londra nel 1976 Solženicyn confessava il proprio sconcerto dinanzi agli occidentali che, pur librandosi indisturbati “sopra le vette della libertà perdono il gusto di essa, perdono la volontà di difenderla e, fatalmente, sembrano quasi desiderare la schiavitù”. E concludeva: “Non mi sarei mai potuto immaginare fino a che grado estremo l’Occidente desideri accecare se stesso”. Come rimedio decisivo per combattere tale cecità, che è trinceramento nel proprio sentire soggettivo ed incapacità di vedere, sentire, conoscere a partire dall’esperienza di vita altrui, Solženicyn addita la grande letteratura, i classici, il cui merito risiede nell’aiutare l’uomo di ogni tempo a lasciarsi attrarre sempre di nuovo dall’inaspettata, vera e trascendente Bellezza che riluce in ogni genuina opera d’arte. Ciò vale, secondo Solženicyn, sia per l’Occidente sia per la Russia, ma solo a condizione che le persone e i popoli ritornino a “significati più alti”.

Al riguardo, Morson osserva: “Se gli ammonimenti di Solženicyn sul collasso delle loro società irritò gli occidentali, la sua altissima concezione della letteratura li urtò come troppo ingenua per esser presa sul serio. Quanti americani riguardano i romanzi come sommamente importanti, figuriamoci poi come redentivi? Oggi, dato che i dipartimenti ‘decolonizzano’ i curricula, sempre meno studenti prendono confidenza coi maggiori capolavori. […] La letteratura non ha più sufficiente prestigio per attrarre le migliori menti, e così il processo di declino accelera. […] Inoltre, ai giovani manca sempre più la pazienza che la grande letteratura richiede. Loro navigano, scorrono, twittano. Così, quanto è probabile che, come sperava Solženicyn, la letteratura trasmetta l’esperienza necessaria per evitare un futuro disastroso?”.

Più che come profezia di sventura, cogliamo le parole di G. S. Morson e di Solženicyn come ruvido grido d’allarme, prima che sia troppo tardi: «Quando un paese denigra i classici, provoca ciò che i russi hanno sperimentato come un’“era glaciale di settant’anni”. La gente imprigiona se stessa nel momento presente e, in nome della libertà, si rende schiava di un solo modo di vedere il mondo. La saggezza guadagnata a partire da esperienze assai diverse sembra sempre più irrilevante. Al termine di Arcipelago Gulag, Solženicyn si rivolse direttamente a quelle élites più refrattarie al suo monito:

“Voi tutti pensatori ‘di sinistra’ amanti della libertà in Occidente! Voi laburisti di sinistra! Voi studenti progressisti americani, tedeschi e francesi! Per quanto vi riguarda, tutto questo non è granché. Per quanto vi riguarda, questo mio intero libro è uno spreco d’energie. Potreste comprenderlo d’improvviso un domani – ma solo quando voi stessi udrete ‘mani dietro la schiena!’ e calpesterete coi vostri piedi la terra del nostro Arcipelago”».

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