Leggendo la nuova antologia poetica Muri a secco, edita da RP Libri di Rita Pacilio e curata da Marco Bellini e Paola Loreto, si ha la sensazione di essere su un binario diverso rispetto a quello di molte altre antologie di poesia, spesso effimere, delle quali abbiamo assistito alla proliferazione negli ultimi anni. Qui il progetto è chiaro, circoscritto, coerente. La scelta ricade su dieci autori, accomunati dall’aver preso parte, negli ultimi anni, alle presentazioni presso la sede meratese di Artee20, autori provenienti da diverse regioni italiane, ciascuno con la propria peculiarità espressiva e stilistica; è stato inoltre scelto di non imporre o definire un tema comune, lasciare libertà ai singoli contributori nella selezione di testi ritenuti da loro rappresentativi del loro fare poesia. E questi testi sono per lo più inediti e danno quindi la possibilità di conoscere la produzione più recente di questi autori, la direzione che la loro scrittura sta intraprendendo, la ricerca che sta attraversando.



Il terreno comune è rappresentato dalla traduzione in dialetto lombardo, affidata ai poeti Piero Marelli e Edoardo Zuccato, per il primo nel dialetto brianzolo di Verano Brianza, per il secondo nel dialetto dell’alto milanese, entrambi dialetti della regione che ha accolto i poeti durante la rassegna; un riferimento forte al territorio da cui l’iniziativa ha preso forma. La traduzione (o meglio sarebbe dire “versione”) poetica è quindi lo strumento per attuare, usando le parole di Piero Marelli, una “poesia del confronto” o, spingendo oltre la definizione, una “poesia dell’incontro” fra autori diversi. Il tentativo (crediamo riuscito) consiste nel risemantizzare e ricontestualizzare, impiegando questo “esperanto” del territorio, le diverse voci degli autori antologizzati in un moto centripeto di avvicinamento, per istituire le fondamenta di una casa comune, l’humus per una poesia realmente condivisa.



Il dialetto è da un lato la lingua dell’origine, derivata dalla ricchezza di una tradizione orale ininterrotta, nucleo fondativo del linguaggio per il territorio in cui nasce; dall’altro lingua che ha tutta la pienezza e la dignità che le consente di farsi strumento letterario, nel solco di una tradizione – quella neodialettale – ormai consolidata e riconosciuta, pari (se non superiore) per mezzi e capacità stilistico-espressiva a quella in lingua italiana. La versione in dialetto inoltre non ha, in questo caso, un ruolo sussidiario rispetto al testo in lingua, ma ne è una vera e propria riscrittura. Marelli e Zuccato sono infatti ricorsi a tutti gli strumenti peculiari del dialetto, aggiungendo così un ulteriore livello metaforico e simbolico al testo originale, grazie alla concretezza e matericità tipiche del dialetto lombardo, la sua capacità di sintesi espressionistica della realtà. Ne nasce quindi un testo alternativo rispetto a quello in lingua, una sorta di “controstoria” o storia controcorrente del testo originario. Il lettore ne esce sorpreso, arricchito.



Ulteriori elementi di comprensione dell’antologia possono derivare dall’analisi del titolo, sempre fondamentale in una raccolta di poesia. I muri a secco sono le costruzioni più antiche realizzate dall’umanità: sono realizzazioni elementari che prevedono di assemblare i loro blocchi costitutivi, senza leganti, in modo che la staticità e la robustezza della struttura venga raggiunta in un gioco di contrappesi reciproci, in cui nessuno dei blocchi rinuncia mai alla propria individualità ma è la loro aggregazione che contribuisce alla forza e alla omogeneità dell’insieme. Se ne trae un riferimento evidente all’idea della poesia come luogo di unione fra le diverse voci degli autori, che non cessando mai di essere sé stesse, si danno tuttavia reciprocamente forza (o meglio momento) in un progetto comune.

La radice coesiva è la lingua dell’origine, la più antica, come solo il dialetto può essere, quella dove è possibile una maggiore tangenza fra parola e realtà e quindi, in definitiva, maggiore prova di autenticità della dizione, aderenza al cuore delle cose. È inoltre intrigante pensare ai muri a secco, grazie alla polisemia che il linguaggio poetico spinge ad adottare, come a un potente correlativo oggettivo per rivendicare, pur nella semplicità e nella fragilità dei suoi mezzi, alla poesia il ruolo di difesa, di preservazione di un mondo che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduto, se non esistessero questi “bastioni” antichissimi, come lo è la poesia, all’apparenza insignificanti, a salvarlo dall’erosione.

Emblematica in tal senso la poesia “Post-scriptum” di Marelli in cui a dominare i versi è appunto il cimitero degli oggetti usati (e abusati) dall’uomo, “quello che è stato abbandonato”, per ricordarci che serve camminare comunque, anche “nell’ombra”, misurarsi “con la voce intollerante del temporale”. E non è un caso che tutti gli autori abbiano scelto testi in cui è evidente una forte impostazione etica sottesa ai loro versi, siano essi riferiti al mondo degli affetti (Bagnoli, Bellini, Olivieri, Pistoletti, Tomada), a episodi della storia (Lamarque, Olivieri), a considerazioni sulla società (Aglieco, Lamarque), al rapporto uomo-natura (Manstretta, Loreto) o uomo-cosmo (Farabbi, Zuccato), a riflessioni filosofico-esistenziali (Benigni, Guglielmin, Marelli, Tomada).

Ciò che preme mettere in evidenza – e per noi è il principale pregio dell’opera – è questa ricerca di un terreno condiviso, la capacità di mettersi in gioco di autori molto diversi, che hanno scelto di acconsentire a un’osmosi coraggiosa dei loro personali percorsi poetici, attraversare gli interstizi (o i varchi?) di questi muri a secco, accettando la sfida della “portabilità” dei loro versi nella lingua dialettale lombarda, che è diventata lingua madre capace di accogliere, rielaborare, arricchire, aprire nuovi scarti lessicali e semantici. Se la maggiore capacità di “resistenza” della poesia (il suo pressure test, direbbe quell’ingegnere che spesso chiede spazio quando scrivo) consiste, una volta tradotta, nel mantenere intatte la propria forza e carica espressiva, crediamo che quest’antologia, tutt’altro che effimera, ne sia un’interessante testimonianza, una dimostrazione possibile della sua riuscita.