Qualche giorno fa ero a pranzo con un amico. I nostri pranzi, due o tre all’anno, si risolvono solitamente con qualche forchettata di depressione. Perché oggi, anche parlare del più e del meno, è divenuto pericoloso per la propria serenità mentale. Entrambi storici, entrambi docenti, entrambi figli del medesimo maestro. Entrambi, in sostanza, desolati. Ergo entrambi impegnati solitamente a darci ragione l’un l’altro della nostra malattia nervosa. Anzi, accaniti nel rinfocolarla, con esempi pertinenti.
Ogni volta qualche lettura ripescata qua e là nella memoria ci aiuta ad ordinare il discorso, e soprattutto a non sentirci isolati nel contesto. Perché siamo entrambi fermamente convinti che ormai tutto è stato detto e tutti noi altro non siamo che minuscoli tipi relativi a tipizzazioni già conosciute. E di ben altro calibro.
Accanto a noi vi era un tizio con una camicia bianca su cui spiccavano tre fiammanti iniziali: G.C.M. Insomma, affrontando la questione in chiave aritmetica, o aveva il doppio nome o il doppio cognome. Tutto è cominciato quando ho fatto presente al mio amico che un tempo anch’io avevo avuto delle iniziali cucite amorevolmente dalla mia mamma su mutandine, canottiere, perfino sul cappellino: era successo quando passavo le mie estati in colonia, da bambino. E le iniziali servivano a rivendicare come mie quelle cose che potevano perdersi, o peggio, essere sgraffignate da qualcuno. Ora, allo scadere del primo quinto del nuovo millennio, dubito che quelle iniziali possano servire per preservare la “roba” in senso verghiano.
No, quelle iniziali erano cosa da Musil. E cioè: quegli uomini “portavano le iniziali del proprio nome significativamente ricamate sulla biancheria; e similmente, cioè non in modo visibile dall’esterno ma nella raffinata biancheria della loro coscienza, essi sapevano chi erano”. E così, tra il primo e il secondo, si è imposto, nella nostra depressa conversazione, un nuovo elemento: l’uomo senza qualità.
Per i depressi non c’è nulla di peggio che riconoscersi in un’opera. Perché alla fine, questi, si identificano poi in tutte le opere che capita loro di leggere. E più sono, più la depressione è profonda, supportata, certificata. È insomma come avere sul tavolo la diagnosi di uno psichiatra.
La questione – ci siamo detti – è tutta nel cambio di secolo. Non si scappa da questa porta stretta che modifica radicalmente il rapporto tra vecchi e giovani, condannando i primi ad essere ancor più vecchi e i secondo ad esser ancor più giovani. Insomma, vivere e quindi invecchiare nel passaggio è cosa diversa dal vivere e dall’invecchiare nel quieto fluire degli anni che vanno dall’uno al novantanove. Ma si sa, dice Musil, “non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno”.
Così dalle banali iniziali su una camicia, l’uomo senza qualità si è dispiegato su tutto il nostro mangiare, pur senza fare dotte citazioni. Perché quell’uomo, benché raccontato il secolo scorso, era vivo e vegeto intorno a quei tavolini rumorosi d’un barettino metropolitano, uguale a mille altri barettini che si credono originali, ma che sono copie di copie, quindi non luoghi, eterotopie rispetto alla giornata di lavoro, ai linguaggi convenzionali, ai ruoli da far valere: dall’usciere all’amministratore delegato.
Intendiamoci: mica stavamo accusando qualcuno. Sotto accusa eravamo noi stessi. Noi storici di una storia che assomiglia sempre più all’Azione Parallela del conte Leinsdorf. Come a dire – con il Carr – che se l’Ottocento è stato il secolo dei fatti, il Novecento quello di una storia perennemente contemporanea, quella del nuovo secolo è storia che giubila. Lo storico – come il prete alle inaugurazioni – benedice. E lo deve fare in fretta, perché tutti aspettano il rinfresco.
E che dire del nostro essere insegnanti? Insegnanti di che? Di banalità confezionate per studenti che non capiscono altro e che ti giudicano poi per la qualità del tuo lavoro. Addirittura in un’università non statale si è istituito un questionario sulla qualità dell’esame. Follia! Eppure a questa follia sottostiamo, con le nostre nevrosi, i nostri mugugni, e qualche pranzo che li alimenta.
L’Azione Parallela: una grande, solenne e forse ridicola benedizione che Musil pone a filo conduttore dell’evoluzione – o dell’involuzione – non solo di ogni suo personaggio, ma della Storia stessa, d’una realtà che si vorrebbe piegata dall’Idea, anzi pietrificata nell’Idea. Uomini senza qualità ovvero qualità senza uomini. Insomma presunzione allo stato puro di un’ancora larvale modernità che pretende una vita aritmetica ed una felicità trigonometrica.
L’Azione Parallela in verità si propone di organizzare le celebrazioni per i settant’anni d’impero di Francesco Giuseppe e di farlo superando in grandezza e forza un’altra celebrazione. Quella tedesca rivolta a sua volta al proprio imperatore. La data tonda è il 1918. Una data che è essa stessa la natura del paradosso musiliano. Primo, perché Francesco Giuseppe muore nel 1916. Secondo perché il grande protettore della Pace mondiale (tema cardine dell’iniziativa) in realtà finirà dritto in una guerra mondiale.
Diamine, ci diciamo, mentre il ragazzo del bar ci chiede se desideriamo un dessert, non è forse il paradosso della storia stessa? O meglio: non è forse la descrizione esatta di questa caricatura di storia giubilare che neppure si sente Cassandra, che prevedeva ma non era creduta, ma si è ridotta a macchietta che giubilando sbaglia senso, direzione e prospettiva? E dunque a che serve se non a consolare e a riempire un esacerbato animo femminile?
No, grazie. Niente dessert. Ma la storia, appunto, è maschio o femmina? La questione è – come l’opposizione giovane e vecchio, spirito e scienza, poesia e matematica, fantasia e realtà – centrale nella poetica di Musil. Perché le due cose conducono a mondi diversi, a sguardi differenti e a specifiche parole. O meglio, a illusorie differenti visioni.
Vivaddio – esclama il mio amico – l’Azione Parallela è cosa totalmente femminile. Quasi un impegno salottiero in cui la bella Diotima mette tutta se stessa in idee e convinzioni, tramezzini e rosolio, mentre i maschi – dotati di baffi – vi ridono sotto.
Ma non è, per caso, che nel passaggio del secolo, siamo finiti tutti con il vivere al femminile, dentro un’Azione Parallela che serve a raccontarci una storia consolatoria? Una storia adatta a ciascun uomo che nel particolare “è ancora abbastanza contento di sé, ma in generale, si sente a disagio nella sua pelle”? E così, quando qualcuno apre la bocca alle nostre manifestazioni d’esistenza, al nostro volto estroflesso, alle nostre narrazioni mirabolanti, insomma a quel tentativo di rendere epica la nostra esistenza com’è epico un cappellino nuovo o una finta borsa di Yves Saint Laurent, manifesta stupore o semplicemente sbadiglia?
L’uomo della camicia con le iniziali se n’è andato. D’altra parte con il suo commensale non aveva altro da comunicare che schermate telefoniche. Perché ha ragione Musil: “nella realtà v’è un assurdo desiderio d’irrealtà”. E la prima irrealtà è il nostro io immaginario, proiettato come un’ombra cinese su un lenzuolo bianco. Ma di chi sono le mani che armeggiano per diventare una giraffa o un elefante?
Il caffè ci spinge stancamente verso la inconcludente conclusione del nostro discorso sull’uomo senza qualità, proprio come Musil che mai ha trovato una conclusione al suo romanzo. Poco ci resta da dire. Se non che forse il più vero degli uomini appare paradossalmente il più terribile: Moosbrugger, il mostro pazzo, stupratore e assassino, che non cerca vie intermedie tra le grandi aporie del mondo e dell’esistenza. Anche la sua camicia di condannato a morte, in fondo, porta con sé un nome cucito a bella posta. Solo che lui vive della superiorità dell’uomo “che si è liberato del desiderio di vivere” e usa tutta la sua forza, brutale e assassina, per tenere insieme il mondo.
Io ed il mio amico usciamo dal barettino metropolitano. Ci salutiamo con una sola, condivisa certezza: nati in clinica, destinati a morire in clinica, in fondo viviamo in clinica. Con il resto di un’umanità che gioca e che, per sapere chi è, deve scriverselo su una camicia.