Pubblicato nel 2003 a New York, Leggere Lolita a Teheran è l’opera maggiore di Azar Nafisi. All’epoca la scrittrice, nata nel 1948 a Teheran, figlia del sindaco della città e della prima donna parlamentare iraniana nell’era prerivoluzionaria, viveva esiliata in America da sei anni. Nel 1997 la scrittrice dovette lasciare l’amato Iran e l’insegnamento di letteratura occidentale all’Università Allameh Tabataba’i, per le continue pressioni del governo teocratico.
Il suo libro, contro ogni aspettativa, conquistò la cima delle classifiche, divenendo un bestseller mondiale di letteratura e attualità politica. Caratteristica che mantiene anche oggi, illuminando la situazione di oppressione sociopolitica di milioni di iraniani e in particolare di iraniane.
Il libro è il racconto di come la sottile arguzia dell’autrice le permise di tenere, per alcuni anni, lezioni di letteratura anglosassone e americana nel cuore culturale di Teheran. Il trucco, se così si può dire, era di inscenare in aula processi culturali a opere e autori ritenuti decadenti o depravati, di cui l’autrice assumeva la difesa d’ufficio. L’esperimento dovette cessare nel 1995, quando Nafisi abbandonò per la seconda volta l’insegnamento accademico dopo il suo rientro in Iran nel 1979, al termine della sua lunga formazione compiutasi tra la Gran Bretagna e l’America, dove si era laureata all’Università dell’Oklahoma. Tuttavia le lezioni ripresero clandestinamente per circa due anni, con sette delle migliori studentesse che venivano a casa della loro docente, allora agli esordi come scrittrice, a dibattere di Fitzgerald, Austen, Henry James, o delle Mille e una notte e ovviamente di Lolita.
A dispetto delle raccomandazioni dell’autrice di tenersi lontane da una chiave di lettura politica dei testi, il romanzo di Vladimir Nabokov si impose come emblematico dell’oppressione della donna nella repubblica islamica dell’Iran. Scritto in lingua inglese, Lolita fu inizialmente rifiutato da diversi editori americani e vide la luce nel 1955 a Parigi, solo grazie a un editore specializzato in letteratura erotica. Si comprende quindi che il coinvolgimento empatico delle studentesse iraniane con Lolita non fosse né facile né immediato. Il primo sentimento a imporsi alle giovani, sulla scorta della lettura di Nabokov, fu quello di essere state sequestrate da uno Stato occhiuto, ossessionato da sesso, derubate della propria giovinezza e femminilità, né più né meno di ciò che accadde a Lolita sequestrata da Humbert, il protagonista maschile del romanzo. Tuttavia il sentimento di essere violate si è poi esteso oltre il sequestro fisico, lasciando intravvedere una riduzione dell’identità femminile a “prodotto del sogno di qualcun altro”.
Poco importa se nel caso delle studentesse iraniane fosse il sogno (a occhi aperti) di un censore e non di un libertino. La differenza è solo apparente, si tratta infatti di due figure instabili pronte a ribaltarsi una nell’altra: “La nevrosi è la negativa della perversione” ha insegnato S. Freud.
“La prima cosa che ci colpì, si legge nel libro, è il fatto che Lolita sia presentata fin dalla prima pagina come una creatura di Humbert. Non a caso viene descritta rapidamente, quasi di sfuggita. ‘Ciò che avevo follemente posseduto’ ci informa Humbert, ‘non era lei, ma una creatura mia, una Lolita di fantasia (…)’. Per reinventare Lolita a proprio piacere, Humbert deve sottrarle la sua vera storia e rimpiazzare Lolita con una reincarnazione (…). È ciò che lo stesso Humbert e un certo numero di critici chiamano l’appropriazione solipsistica di Lolita”.
Assumere il romanzo Lolita come metafora sociale, con la provocante ragazzina chiamata a rappresentare la società iraniana e Humbert la Repubblica islamica è una tesi che farebbe rivoltare Nabokov nella tomba. Esteta per vocazione letteraria, lo scrittore russo-americano prediletto da Nafisi, non a caso un’occidental-orientale o un’orienal-occidentale, nulla detestava maggiormente della “letteratura delle idee”: una letteratura pedagogico-sociale che mai avrebbe avuto la sua approvazione. Ciò non di meno fu in quella direzione che il libro orientò il pensiero delle sette sfrontate che sfidarono gli strali di una censura pervasiva come poche altre.
Vi è, in ultimo, da rendere giustizia al livello sotterraneo del coinvolgimento delle studentesse con Lolita, che va oltre la razionalizzazione sociale per la quale Lolita sarebbe un soggetto perseguitato, vittima di un vergognoso sopruso. Pensare Lolita come soggetto solamente passivo è fare torto al personaggio e prima ancora alla donna come soggetto “artefice della propria fortuna”, per richiamare la definizione del sovrano di Machiavelli. Il personaggio Lolita è un soggetto incompiuto, ma sicuramente non passiva, una provocatrice alla quale Nabokov non pare interessato a offrire una vera prospettiva, se non come stimolo per appetiti sessuali altrui. Non solo non ha un passato, come già notato da Nafisi e allieve, ma neppure un futuro, e quando finalmente riuscirà a divincolarsi dalle grinfie di Humbert, l’autore non trova di meglio che farla morire di parto.
D’altronde, sarebbe questa la lezione da imparare per non sciupare il buon contributo di Azar Nafisi e delle sue studentesse: scrivere la propria storia non è un compito che una donna, un uomo o una nazione, possono affidare ai sogni di altri, censori o libertini che siano.
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