Per alcuni sono numeri, per pochi altri, esseri umani, ma comunque emeriti sconosciuti. Il più delle volte, come vuole la vulgata, si tratta di piccoli criminali, futuri stupratori e spacciatori di droga, lazzaroni che vengono da noi a intascare redditi di cittadinanza vari. Insomma, dei carichi umani di cui faremmo volentieri a meno. Tutti inscatolati su zattere, barconi che stentano a stare a galla, gommoni. Prendono il largo dalle coste della Libia (oggi più spesso dalla Tunisia) e, se gli va bene, vengono pescati in alto mare da vedette della Guardia costiera italiana e o da qualche Ong. Altrimenti finiscono in fondo a quello che Papa Francesco ha definito “il più grande cimitero d’Europa”, il Mar Mediterraneo.



Nessuno, né giornalisti né politici, si cura di sapere chi siano veramente. Lo fa Fabrizio Gatti, giornalista d’inchiesta e scrittore, autore di Bilal. Il mio viaggio da infiltrato verso L’Europa (2007 e 2022, nuova edizione) da cui è stata tratta la serie tv di Sky Unwanted, diario di quattro anni da infiltrato lungo le rotte del Sahara tra i trafficanti e i migranti in viaggio dall’Africa verso l’Europa, e Gli anni della peste (2013), la storia del primo collaboratore di giustizia tradito dallo Stato e altri libri ancora, nel suo nuovo romanzo “d’accusa”, genere con il quale si è fatto un nome anche all’estero. Nato sul confine (Rizzoli, 2023) ci fa conoscere di persona questi misteriosi personaggi che qualcuno accusa essere inviati in Europa da poteri oscuri per operare la famigerata “sostituzione etnica”.



Ecco chi sono i “migranti”: una famigliola composta da un padre (pediatra), una madre (farmacista) e un figlio, Mabruk, ancora nel pancione materno, ma già in grado di vedere e capire le cose attorno lui. Come tanti altri si trovano rinchiusi in un sordido, afoso e puzzolente garage libico in attesa di imbarcarsi. Sono persone colte: laureati, medici, infermieri, ingegneri. Li accomuna una cosa sola: fuggire da una guerra in cui non esistono buoni e cattivi, ma solo criminali assassini. Una guerra dove, se non ti uccidono gli islamisti, lo fanno i soldati dell’esercito regolare.

In modo brillante, Gatti rende protagonista e narratore della storia il piccolo feto che ci dice del sacrificio che il padre ha cercato di compiere, operando nell’ospedale di Homs (Siria), curando sia “i buoni” che “i cattivi”, ma che quando un missile non si sa di quale parte è esploso nei pressi della loro abitazione, decide di portare la famiglia in quella che crede essere una città più sicura, Aleppo. Errore gravissimo. Siamo infatti all’inizio di quella che è stata svenduta come “la primavera araba siriana” che come tutte le altre di quel periodo storico si rivelò essere manipolata e strumentalizzata da estremisti islamici manovrati da superpotenze terze. Del padre si perderanno le tracce, la madre incinta finirà in Libia in attesa di fuggire in Europa.



Gatti conosce le cose di cui scrive, da inviato che è arrivato anche a viaggiare su un barcone pieno di clandestini sbarcato a Lampedusa. Per questo libro, ha ricercato e costruito nel dettaglio le storie di chi era a bordo di quel peschereccio che l’11 ottobre 2013 con a bordo centinaia di persone (quasi 500) affondò nelle acque di competenza maltesi, ma vicino alle coste di Lampedusa, mentre le autorità dei due Paesi si rimpallavano la responsabilità di intervenire (“Ci sono volute quattro ore e mezza per firmare un ordine che, dato in tempo, avrebbe richiesto soltanto trentasei secondi per diventare operativo”), costando la vita a 268 persone, tra cui 60 minori (da qui l’espressione “nave dei bambini”).

Il libro è straziante e avvincente allo stesso tempo, l’autore accusa con coraggio le responsabilità di noi occidentali davanti alle guerre per interposta persona e il silenzio vergognoso davanti alle sofferenze degli innocenti, facendoci vivere dapprima la tragedia della guerra, poi quella della fuga, con particolari che nessun telegiornale sarà mai in grado di narrare.

Il protagonista  nasce sul barcone pochi minuti prima dell’affondamento: lo chiamano Mabruk, che in siriano significa “auguri”, un ultimo grido di speranza. Troppo tardi: Mabruk, la sua mamma, altri 60 bambini e centinaia di persone finiscono sotto le acque del Mediterraneo.

Per non dimenticare la Siria, dove “l’inimmaginabile diventa realtà” mentre già ci stiamo dimenticando dell’Ucraina.

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