La differenza fra me e il professor Massimo Borghesi non ha nulla a che fare con la contrapposizione fra destra e sinistra (aveva ragione Ortega y Gasset quando scriveva che identificarsi in una sola di queste due categorie costituisce “una forma di emiplegia mentale”), o fra teologia politica e teologia della politica. È una differenza di approccio alla realtà: teoretico il suo, pratico il mio. Consiglio a lui e a tutti i lettori del Sussidiario la lettura di La storia perduta del cristianesimo di Philip Jenkins, storico gallese-americano che nulla ha a che fare con la destra religiosa e che è stato ospite del Meeting di Rimini nel 2018.



Il libro traccia la storia dei cristiani di Oriente e rievoca fra le altre cose una vicenda molto istruttiva: quelli dei copti d’Egitto. Quando nel 642 i musulmani conquistano Alessandria e assorbono l’Egitto nel nascente califfato, i cristiani rappresentano il 90 per cento di tutti gli egiziani. Attorno all’anno 1000, dopo tre secoli di dominio musulmano, sono ancora più del 50 per cento della popolazione. Oggi sono ufficialmente il 10 per cento di tutti gli egiziani (più verosimilmente sono il 5-6 per cento), mentre i musulmani sono diventati il 90 per cento.



L’inversione di proporzioni è stata graduale e progressiva perché solo in piccola parte è dovuta all’eliminazione fisica dei cristiani da parte dei musulmani o alla loro conversione forzata: questo è accaduto su larga scala solo con la persecuzione del 1354. Prima e dopo questa data, le conversioni dal cristianesimo all’islam sono dovute principalmente alla pressione sociale e alle leggi: alla tassa sui dhimmi, alle mancate opportunità economiche e di carriera nella funzione pubblica se si era cristiani, ecc.

La sintesi è che quattordici secoli di potere politico-religioso musulmano hanno quasi prosciugato, attraverso molteplici forme di pressione delle quali la violenza fisica è solo l’ultima e la meno praticata tranne che in alcuni particolari momenti, il bacino cristiano egiziano.



In Italia, dove i vari poteri che si sono succeduti dalla fine dell’Impero Romano hanno incoraggiato il cristianesimo cattolico (con la modesta parentesi ariana), al momento dell’Unità risorgimentale quasi tutta la popolazione era cattolica e la Chiesa aveva modellato la civiltà italiana. Ne deduco che la politica religiosa di coloro che detengono il potere e promuovono una religione piuttosto che un’altra ha un forte influsso sulle fortune delle varie confessioni religiose, comprese quelle cristiane. Questa è palesemente una deduzione di puro buon senso a partire da dati di fatto storici, e accusarmi per questo di “eterodossia” non farà sparire i fatti.

La mia riflessione è nel solco della legittima autonomia delle realtà terrene (Concilio Vaticano II), come quella degli esegeti che applicano il metodo storico-critico alle Scritture. Ribattere che “la grazia soprannaturale non necessita di nulla per accadere. Richiede solo il consenso del cuore umano. In qualsiasi luogo e sotto le condizioni più avverse Dio può incontrare l’uomo”, implica logicamente, alla luce della storia, che gli italiani si sarebbero mostrati più aperti alla grazia degli egiziani. Mi tengo alla larga da questa logica assolutista e sono convinto che i restanti cristiani egiziani avrebbero il diritto di mettere le mani addosso a chi sostenesse questa tesi.

Qualcuno mi risponderà: quello che osservi è vero, ed è anche per questo (cioè per evitare favoritismi verso un determinato culto e per prevenire guerre di religione) che è stato inventato il moderno Stato laico, che separa regione e politica e ha fra i suoi fondamenti la neutralità statale rispetto alle confessioni religiose. Già, peccato che 250 anni dopo la Rivoluzione francese di neutralità religiosa degli Stati non ci sia alcuna traccia. Gli Stati che non presentano una religione di Stato o una religione favorita in quanto costitutiva dell’identità storica del paese l’hanno sostituita con le varie forme di religione secolare che si sono succedute: il nazionalismo, il razzismo nazional-socialista, il social-comunismo, oggi l’egualitarismo e tutta l’ortodossia del politicamente corretto che ben conosciamo.

Il potere (oggi non basta parlare di Stati) non può fare a meno della religione, e ha tutti i mezzi, dalla mera forza alla persuasione occulta, per imporre alla grande maggioranza della popolazione il culto che gli risulta più utile. I più onesti fra i laicisti hanno sempre ammesso questa realtà: da Auguste Comte, il positivista fondatore della sociologia che escogitò una “religione dell’umanità” che garantisse lo stesso grado di coesione sociale che aveva garantito il cristianesimo, a Yuval Noah Harari, lo storico e futurologo ateo israeliano che oggi va tanto di moda, e che annuncia l’avvento del “datismo” come religione della futura era transumana.

Con tutto questo, non ho scritto e non penso, come asserisce Borghesi, che la Polonia e l’Ungheria di oggi rappresentano il modello ideale contemporaneo del rapporto fra religione e politica per chi si dice cristiano. In questo ambito i modelli ideali non esistono, esistono solo modelli storici, che proprio perché storici non possono essere esportati o imitati se non in minima parte. La Polonia e l’Ungheria sovraniste di oggi hanno senso in quanto sono espressione di una storia peculiare e possono essere giudicate solo da polacchi e ungheresi, cioè dagli eredi di quella storia. Io non difendo l’eccellenza del loro modello, difendo il loro diritto all’originalità e alla diversità contro l’imperialismo europeista di chi vorrebbe costringere tutti gli stati d’Europa a un unico modello di impronta laicista astorico e improntato alla fobia per le identità. Non sono polacchi e ungheresi che vogliono imporre il loro modello all’Europa, sono gli “europeisti” e Massimo Borghesi che vogliono imporre il loro modello a polacchi e ungheresi. Difendo il vecchio slogan dell’Unione Europea: “uniti nella diversità”. Che aveva e ha senso perché le differenze nascono dalla storia, e la storia non è passato, è presente in quanto informa i modi di essere dei singoli e dei popoli. Difendo la biodiversità culturale, e quindi anche politico-religiosa, dell’Europa, esattamente come l’Instrumentum Laboris del Sinodo per l’Amazzonia auspica che la Chiesa difenda le culture degli indios per garantire quella biodiversità culturale che è indispensabile per la salvaguardia della biodiversità animale e vegetale dell’ecosistema amazzonico. Non credo che Borghesi voglia accusare anche i padri sinodali di “secolarizzazione romantica” come ha fatto con me.

Per quanto riguarda poi la mia “mancata assimilazione critica della modernità”, faccio presente a Borghesi che essa non è così profonda e grave da non farmi intendere il valore della “separazione di fede e legge”, dall’indurmi a vedere “nel potere la via di salvezza rispetto al nichilismo contemporaneo” o da farmi credere che la città di Dio “si realizza attraverso la politica”.

In ogni caso tutto questo non c’entra nulla col dovere che i cristiani così come gli uomini di buona volontà hanno di obbedire a Dio ovvero alla voce della coscienza e di servire la giustizia, che arriva fino alla formulazione delle leggi che reggono la comunità civile. Non è un omonimo del Joseph Ratzinger che ha scritto che “caratteristica positiva dell’età moderna” è “la separazione di fede e di legge” e che “gli ordinamenti di questo mondo (…) devono restare ordinamenti mondani”, il Joseph Ratzinger che, papa col nome di Benedetto XVI, ha scritto nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale della pace 2013:

Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita. Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale. Questi princìpi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

Qui Ratzinger-Benedetto altro non fa che tirare le conseguenze di quel passo della Gaudium et Spes (Concilio Vaticano II, quello che secondo Borghesi io ho lasciato passare invano) che recita:

“Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa’ questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. (…) Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale”.

Accusare i cristiani che cercano di essere coerenti con queste affermazioni nel loro impegno politico di essere adepti della teologia politica o affiliati della destra religiosa è imperdonabile, e faccio veramente fatica persino ad accettare che tali accuse siano mosse in buona fede.

Non mi dilungo sulla questione delle relazioni pericolose fra cristiani e sovranismo, per non abusare dell’ospitalità del Sussidiario e della pazienza dei lettori, ma anche perché su queste cose ho già scritto molte volte sul mio blog e presto quegli interventi insieme ad altri saranno raccolti in un libro. Non sono sovranista, anche per alcune delle ragioni che Borghesi illustra, ma penso che, nel breve termine e avendo solo l’alternativa di scegliere fra l’allearsi ai partiti sovranisti o allearsi ai partiti del politicamente corretto, per i cristiani sarebbe più opportuno allearsi coi sovranisti.

Nel medio-lungo termine sarebbe un abbraccio mortale sia l’alleanza coi sovranisti che quella coi politicamente corretti, con la sola differenza che la prima sarebbe una morte lenta mentre la seconda sarebbe una morte molto veloce. Il politicamente corretto infatti ha molte più pretese del sovranismo nei confronti della Chiesa, è un’ideologia radicale che non fa prigionieri. Il politicamente corretto non si limita, come il sovranismo, a una strumentalizzazione esteriore di contenuti religiosi, ma esige che la Chiesa si converta al credo egualitarista, individualista, relativista. Le Chiese devono accettare e legittimare: le nuove forme di famiglia, comprese quelle formate da divorziati risposati e da persone dello stesso sesso; tutti gli orientamenti sessuali e tutti i rapporti sessuali, anche prima e fuori dal matrimonio; i mezzi di controllo delle nascite dalla contraccezione artificiale fino all’aborto, male inevitabile; la procreazione assistita omologa ed eterologa, con o senza selezione eugenetica degli embrioni; l’eutanasia almeno nella forma passiva; l’uguaglianza assoluta fra uomo e donna che implica l’estensione del sacerdozio alle donne; il relativismo religioso in base al quale nessuna religione può di per sé considerarsi depositaria esclusiva della verità e tutte devono orientarsi all’unificazione in una sola grande entità di diritto o di fatto; domani dovranno approvare il potenziamento della natura umana che le tecnologie permetteranno di realizzare (transumanesimo).

Dove le Chiese hanno accettato di sottomettersi a queste richieste, cioè nel Nord Europa, sono scomparse o sono in via di estinzione. E anche questa è una constatazione di fatto, frutto di un approccio pratico, per nulla teoretico.