Vogliamo provare a immaginare il Novecento poetico italiano senza l’opera di Eliot? Non entro neppure nella vexhata quaestio del correlativo oggettivo, ma pronuncio in punta di penna due nomi, non proprio due minori del secolo appena trascorso: Eugenio Montale e Mario Luzi. Gli “uomini vuoti” di Eliot post Waste Land, che non hanno più nulla da offrire alle successive generazioni, sono come “l’uomo che se ne va sicuro” del montaliano Non chiederci la parola: uomo e ombra insieme che, a differenza del poeta, non vive a occhi aperti, si illude di avere delle certezze e non si interroga sulla propria illusoria identità (“l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro!”). Poi: potremmo pensare allo straordinario teatro in versi di Luzi.



Evidenti sono i punti di contatto fra la produzione teatrale e quella poetica luziana di quegli anni ed Eliot. Oltre alla comune passione per Dante e a un rapporto travagliato con le istituzioni religiose, li unisce la scelta di un andamento poematico, prosastico e soprattutto, drammaturgico, volto a un’indagine e a un’interrogazione sull’essere e sull’esistenza. E lo mette in evidenza molto bene ora Daniele Gigli nel suo recente T.S. Eliot, nel fuoco del conoscere (Ares edizioni, 2021) quando ricorda come ambedue reputano che “il teatro debba presentare una visione della vita semplificata dall’intelligenza dell’autore, e che il verso debba contribuire a servire questo scopo”.



Dunque: vogliamo provare a immaginare cosa potrebbe significare per i poeti italiani ora in formazione (ma anche per tanti di quelli già formati a ben pensare) andare ad esaminarlo a fondo e trarne fecondi spunti di pensiero e poesia? Allora, a quanti vogliono farlo, suggerisco innanzitutto di andare a leggersi l’opera eliotiana e poi di accompagnare questa istruttiva campagna di acquisizione di sapere proprio con il libro appena firmato da Gigli. L’autore, classe 1978, già traduttore dell’opera di Eliot e poeta egli stesso, denuncia sin da subito il debito contratto nei suoi confronti; quindi si cimenta nella ricostruzione, rigorosa e comprovata soprattutto sui testi, della biografia intellettuale e culturale di questo maestro. Incontrato “giovane di venticinque anni disilluso e amareggiato dagli studi universitari e da un mondo terribilmente attraente e che al tempo stesso sembrava privo di qualsiasi senso e direzione”, Gigli nel prosieguo del suo percorso l’ha tenuto sempre molto presente (e leggendo i suoi versi questo punto di riferimento è lampante).



Cos’ha fatto allora Gigli? Partendo da testi già editi, ma ritradotti, e una buona messe di inediti, ha osservato l’opera eliotiana cogliendo riscontri e prove di una gradualità di cammino che procede di pari passo con un ripensamento continuo di motivi, di nuclei di pensiero, di esigenze poetiche e artistiche in generale e spirituali, sempre molto incombenti. Tutto questo Gigli lo coglie con precisione e lo riporta con una scrittura sempre limpida e scorrevole, tesa nel suo andare avanti e indietro nella lettura dell’opera eliotiana e nel sottolineare i numerosi intrecci tra un prima e un dopo. Armonizzare in un discorso esegetico un itinerario così ricco è indubbiamente impegnativo. Basti pensare, nella poliedricità di Eliot, al continuo conflitto interiore che si riverberò nella produzione poetica fino al celeberrimo, e non unico capolavoro, Waste Land ma con una problematicità mai silente nel pensiero e nel verso che giunge ai Quattro quartetti del 1945. E Gigli non ha tremato di fronte all’impresa e non è venuto per nulla meno al suo compito, che reputo abbia ben portato a termine anche grazie, a mio avviso, a una sintonia quasi simbiotica con la materia.

Tradurre qui Waste Land con Paese guasto non è un vezzo teso a cambiare l’affermata Terra desolata, tanto per marcare una differenza, ma è un accorto richiamo sia alle fonti del poemetto eliotiano (la terre gaste dei poemi epici-medievali) che alla restituzione quasi onomatopeica di quell’aspra sonorità st. Bisogna anche aggiungere che quando Gigli nello spiegare un passo dell’ultimo Eliot del 1962 sulla propria esperienza estetica (Al decano del Magdalene College di Cambridge) la fa propria, affermando che “l’avventura dell’interpretazione è tutta nella relazione tra autore e lettore, e nessuna mediazione critica deve ostacolare, pena il perdere l’esperienza estetica e trasformarla in erudizione informata”, delinea sì le conclusioni di Eliot ma traccia anche il suo metodo di lavoro: prima il testo e poi la lettura immediata (in senso letterale) scevra da pre-concetti. E forte di questo ha affrontato anche un altro dato sensibile della vicenda culturale di Eliot: la conversione religiosa.

Nella storia letteraria se ne annoverano tante, di vere e presunte, ma quella di Eliot è arduo comprenderla nelle sue progressive sfumature e nei suoi dettagli. Eppure bisognava farlo per non lasciare alle inquietudini del nichilismo deteriore questo poeta. Daniele Gigli chiarisce il percorso interiore di Eliot con esattezza, ribaltando la vulgata critica, come quando prende in esame i versi di The Hollow Men giungendo, in chiusura del suo ottavo capitolo, a scrivere: “E se nel panorama desolato della terza sezione la preghiera è rivolta a un simulacro, a una pietra franta che ricorda il sepolcro vuoto di Cristo, nella quarta alla coscienza della disperazione umana fa seguito l’ipotesi dell’Incarnazione come sola speranza (…). L’ipotesi dell’Incarnazione è l’accenno dell’ipotesi della grazia, del suo accoglimento”. E su questi presupposti gli Ariel Poems prima e Ash Wednesday poi testimoniano “il fervore creativo e la fecondità che il cammino di conversione porta in dote a Eliot”.

Tutto ben detto, e fatto, Daniele Gigli! 

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI