Paolo Valesio ripubblica per Diaforia il suo romanzo Il regno doloroso, edito per la prima volta da Spirali nel 1983, resistendo ad ogni tentazione di revisione o di aggiornamento, solo posponendo un Piccolo diario di lavoro, risalente al 2023, un po’ chiarificatore e un po’ depistante. Ad una carriera di linguista, anzi di glottologo, definizione che lo studioso accoglie con understatement molto anglosassone, Valesio ha affiancato quella di poeta e narratore. Conclusa la sua lunga attività di docente di letteratura italiana nelle più prestigiose università americane, Valesio è tornato nella natìa Bologna, dove dirige il Centro Studi Sara Valesio.
In questi anni, l’autore si è dedicato soprattutto alla poesia con numerose opere, culminate nel poema Il Testimone e l’Idiota, uscito due anni fa e che i lettori del Sussidiario già conoscono. Come avverte Valesio, Il regno doloroso è un romanzo (o esperimento in forma di romanzo, a suo dire) disallineato per forma e contenuti. Disallineato in primo luogo dal clima culturale in cui si è formato il giovane Valesio: la Bologna degli anni 60 e 70, segnati dal magistero di Luciano Anceschi, padre nobile e un po’ distaccato della Neoavanguardia del “Gruppo 63”, di Sanguineti, Giuliani, Porta e Balestrini. Il regno doloroso risente del clima di quegli anni e in genere della discussione e della pratica sulla dissoluzione della forma-romanzo, i cui capisaldi sono Joyce e la Woolf, soprattutto quella del romanzo più sperimentale, Le onde, a cui il testo di Valesio fa pensare.
Nelle sue note diaristiche, Valesio cita alcuni romanzi affini, come quelli di De Chirico, Blanchot e Agnetti, arditamente sperimentali e quasi illeggibili, ma anche da questi, come dai romanzi della Neoavanguardia, Il regno doloroso si allontana. Da una parte, che Valesio sia aperto alla ricerca e alla sperimentazione linguistica e compositiva è indubbio: lo testimonia il suo costante interesse critico per un autore come Marinetti e la sua considerazione di D’Annunzio come crocevia fondamentale della modernità letteraria. Ma ciò che caratterizza questo libro – e potremmo dire tutta l’ultima produzione di Valesio – è l’attenzione e la cura per la finezza e la precisione linguistica, frutto della conoscenza e dell’insegnamento all’estero della grande tradizione letteraria italiana, ben lontana dalla lingua spesso volutamente sciatta e degradata dei Novissimi. E, sempre sul versante strutturale, il carattere poematico e drammaturgico accomuna Il regno al recente Il Testimone e l’Idiota: un andamento ossessivamente realistico e una combinazione tra prosa e poesia che tende a mimare e insieme a trasfigurare il quotidiano.
Proprio qui si colloca un elemento sempre più decisivo nell’opera di Valesio: la ricerca e l’interrogazione del religioso o, meglio, del trascendente, che fa da perno anche a questo libro. Anche Il regno, come Il Testimone e l’Idiota, è un teatro di voci, da quella narrante a quelle dei tre protagonisti, Leo, Aurelio e Doriana, che inseguono tutte le sfumature del reale, nel tentativo di cogliere il divino che brilla nell’umano. Come precisa Valesio, “il sacro si manifesta nel mondo d’oggi solo in modo frammentario e in forma degradata”. Il concetto di sacro legato alla materia, al corpo e alle sue pulsioni ci conduce inevitabilmente a Testori e a Pasolini, ma ancora prima al sublime rovesciato, en bas, di Baudelaire, il poeta della “perdita dell’aureola”, vero padre della modernità.
I personaggi sentono acutamente, dolorosamente, l’assedio della realtà, ma intuiscono che solo vivendo il quotidiano fino in fondo si può svelare loro il significato della vita. In un mondo in cui “la grazia è sempre minacciata”, occorre guardare a ciò che è minimo e trascurato, negli interstizi tra profondità e superficie: sono questi dettagli apparentemente insignificanti che consentono l’epifania, danno ordine a un mondo disgregato e informe. Significativo è un passaggio del romanzo in cui Aurelio ritrova miracolosamente un oggetto smarrito, per cui “il mondo ritorna ad assestarsi” ed egli capisce che il punto è quello di “essere all’altezza di questa coincidenza – per meritarsi quella simmetria fortunata che per un momento gli ha ordinato il mondo”. L’istante, parola chiave del libro, è riscattato da ogni banalità: diventa porta del sacro, inizio di un avvenimento nuovo.
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