Per trovare l’essenziale non bisogna andare molto lontano. Non sono le astrazioni intellettuali che ce lo mostrano. Basta ascoltare la cosa più semplice che ci sia: la nostra vita, nel senso più comune della parola. Cominciando dalla nostra vita incarnata, da questo corpo che ci mette costantemente in relazione con il mondo.



Una coreografa contemporanea, Anne Teresa De Keersmaeker, ha tentato di dar voce a questa semplice realtà della vita che è la nostra incarnazione. Lo ha fatto cominciando da un gesto estetico che lei stessa ha definito un “minimalismo puro, luminoso, trasparente”. Si tratta di eliminare tutto quel che è superfluo, in modo tale che l’essenziale possa saltare agli occhi, in piena evidenza.



Guardando le sue opere, i corpi emergono nella loro più semplice verità: come delle potenze d’azione aperte in due direzioni, quella verticale (tra terra e cielo) e quella orizzontale (gli altri esseri umani).

Nell’ordinaria “nudità” che la danza mette in mostra si manifesta quindi la più elementare verità dell’umano: noi siamo un’apertura costante al mondo, che non smette mai di dilatare nuovi orizzonti, non solo in direzione degli altri esseri umani (tra di noi, i viventi), ma anche in direzione di qualcosa che ci trascende (il cielo, sotto il quale la nostra esistenza terrestre da sempre si svolge).



Ecco perché, come scrive in una delle sue riflessioni De Keersmaeker, la danza è una vera “celebrazione dell’umano”. Come in una festa, la coreografia mette in mostra quel che ci rende viventi: la nostra relazione sempre rinnovata con quel che che ci trascende.

Tuttavia, sarebbe sbagliato credere che questa relazione sia una sorta di semplice stato di fatto. Il nostro corpo (ma è vero anche in merito al nostro linguaggio) ci apre alla realtà esercitando delle azioni, attraverso dei gesti e dei movimenti che ci permettono di accoglierla, di seguirla, di ascoltarla.

Il segreto della nostra storia è tutto concentrato in quest’infinita relazione creativa con qualcosa che ci oltrepassa: il mondo, gli altri, Dio. Sin dai primi gesti della nostra infanzia, seguendo poi la catena delle espressioni più complesse, dalla parola fino alla liturgia, il nostro corpo (individuale e collettivo) si estende in una magnifica coreografia attraverso la quale ci apriamo a orizzonti sempre nuovi, fino a quello – ultimo – della Trascendenza.

Con i mezzi propri della danza, l’opera di De Keersmaeker non fa altro che manifestare il senso di ogni arte e, più in generale, di tutta la cultura. Si tratta di restituirci a noi stessi, di produrre una resurrezione della nostra autentica umanità, rimettendoci in condizione di fare un’esperienza integrale di quel che siamo.

Di questo potere di restituzione alla semplicità della vita – cioè all’essenziale dell’esistenza – noi uomini abbiamo sempre bisogno. In particolare, in un tempo in cui, travolti dall’informazione, distratti nel consumo e ipnotizzati dallo spettacolo, ci sentiamo costantemente dispersi nell’inessenziale. Ecco perché la nettezza con cui De Keersmaeker mette in mostra la nostra incarnazione è tanto preziosa e tanto eloquente.

Ritornando a vivere la semplicità del nostro corpo, così come le altre dimensioni dell’umano (la parola, il lavoro, la liturgia), è sempre la stessa verità che si manifesta: l’apertura che da sempre noi umani siamo, la nostra esistenza come avventura dell’oltrepassarci, in direzione degli altri e in direzione dell’Altro.

L’essenziale è sempre a portata di mano. Il gesto metafisico più alto – quello di vivere aperti alla trascendenza – si nasconde nel più piccolo movimento del corpo.

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