Frutto della rielaborazione di una serie di interventi sull’Osservatore romano dedicati a un tema che l’autore maneggia da anni con perizia, il titolo dell’ultimo libro di Costantino Esposito, Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca (Carocci, 2021) è effettivamente pertinente al suo tema. Del nichilismo, pur presupponendone le analii, non vuole essere una ripresa della sua formulazione classica modellatasi, al seguito di Nietzsche, tra il XIX e il XX secolo. Del rigetto che in quella formulazione si dà della scissione nel pensiero e nei vissuti sociali tra cultura soggettiva e cultura oggettiva, per dirla con Simmel. Culture incomponibili nel rifiuto radicale – fino al trauma in alcune valenze esistenziali – di un reale affidato al calcolo razionale operativo e di un mondo dell’ideale fuggito via dal sentire comunitario per rifugiarsi nell’astrattezza degli apriori formali della ragione, al seguito filosofico di un esangue “mondo dei valori” della legge morale kantiana.



Un’incomponibilità, che Nietzsche aveva annunciato per tempo come tragica anomia dell’immanenza a valle della “morte di Dio”; della fine di un’esperienza viva dell’alterità e della trascendenza, cercando di sottrarre, questa fine, al filisteismo piccolo-borghese dell’ultimo uomo che quella tragicità rifuggiva nel comfort di una “vogliuzza per il giorno e di una vogliuzza per la notte”. Per affidarla invece alla valenza “ipermorale” di un’umanità – l’ultraumanità del Superuomo – che sapesse dare a sé stessa quello che si era tolto con l’uccisione del dio cristiano, e cioè un senso possibile – nell’immanenza, presa sulle proprie spalle fino in fondo – al suo stare al mondo.



Esposito parte dal fallimento di queste speranze “ultraumane” del corpo a corpo di Nietzsche con il nichilismo, nel compimento oggi – di qui il suo farsi “cronaca” e non più storia – di quell’annuncio di un fenomeno che per il filosofo dello Zarathustra avrebbe dettato l’agenda di due secoli. Un compimento che vede proprio la vittoria dello sprezzato “piccolo uomo” di Nietzsche, cioè dell’adeguarsi del sentire collettivo, di tutti e di ciascuno, al nichilismo come ovvietà pratica quotidiana, senza nessuna aura di vissuti tragici di qualche rilievo; benissimo adeguato, questo sentire collettivo, alla “vogliuzza per il giorno e alla vogliuzza per la notte”, persino con disincanto accolte come non senso per il giorno e per la notte.



La vera difficoltà “nichilistica” di massa oggi non è un magari sordo dissenso da questo non-senso quotidiano, ma al più il non potersi pagare i “giocattoli” nel generale supermercato di persone e cose. E come potrebbe esserci un dissenso di tal fatta, in un mondo dove Papa Francesco, il “capo” della più grande agenzia morale tuttora attiva sulla terra, la Chiesa cattolica, custode almeno per i credenti del depositum fidei attorno a cui si riconoscono, ha cinque milioni di followers sul web, mentre Ronaldo ne ha 256 e la sua gentile compagna Georgina 25? C’è evidentemente qualcosa che non quadra per chi coltivi la velleità che dal nichilismo si possa uscire, che è poi la “necessaria velleità” che questo libro di Costantino Esposito ha il coraggio di proporci.

L’etimo ci dice che la velleità è “una volontà debole che rimane senza effetto”. Eppure, eppure è questa volontà debole che continua nella vita di tanti, se non di ognuno, a far capolino, anche oggi in “questo” nichilismo. E lo fa in modo più nudo come bisogno incomprimibile della natura umana, perché, quando emerge, non ha filtri di copertura ideologica, ma è nativa, ricerca di senso nonostante tutto; nonostante una cultura pervasiva in contrario che spinge non a cercare il senso, anche dei propri sensi, ma ad acquietarsi in essi, ché la società sta lì per lì per soddisfarli.

La grande menzogna con cui oggi si vorrebbe negare ai bisogni il “diritto” di non farsi bastare a sé stessi, di non desiderare oltre il loro materiale “soddisfacimento”; il bisogno di andare oltre i bisogni, soddisfatti o meno. Ma noi non siamo solo questo circolo chiuso del bisogno, o quanto meno abbiamo bisogno di un altro bisogno (Esposito lo chiama desiderio); di un filo, cioè, che leghi a noi la nostra stessa esistenza, e le nostre stesse esistenze, e le leghi ad altro e ad altri; un filo di senso, magari sottile, ma un filo almeno, mentre ci agitiamo tra tanti, troppi significati. Nihil in latino vale “non un filo”. Ecco perché alla fine, appena si strappa qualcosa nella nostra vita, questa assenza di filo per ricucire, per ricucirci si fa sentire, riemerge e non ci basta. E la “velleità” di non adeguarci al nulla, anche al nostro nulla, resta nonostante tutto, nonostante le cronache in contrario, una “necessità”.

E questo libro negli scorci che ci offre, reportage li chiama l’autore, del nichilismo quotidiano che abitiamo, ci aiuta a vedere questa necessità; fondativa di una speranza, se non di venirne fuori, quanto meno di non dare per persa la partita. Insomma, anche in tempi di povertà, per dirla con Rilke, siamo ancora in tempo, e sempre in tempo perché umani, per poter dire: “chiedimi se sono felice”. Per trovare, come padre e figlio ne La strada di McCarthy la salvezza delle loro vite, mentre traversano la devastazione di un deserto forse post-atomico, nel vibrare in esse del mistero che come vita, come ogni essere che vive, custodiscono, rivisto nel ricordo dei salmerini nelle pozze d’acqua di montagna.

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