Nella Premessa che apre Al di là del bene e del male ‒ libro pubblicato un anno dopo lo Zarathustra e un anno prima di Genealogia della morale: testo in cui Nietzsche riprenderà varie tematiche in parte già affrontate nell’opera precedente, della quale esso in un certo senso rappresenta il prosieguo e l’approfondimento ‒ il pensatore di Röcken scrive: “Ci sono buoni motivi per sperare che in filosofia ogni dogmatizzare, per quanto si sia atteggiato a solenne, conclusivo e definitivo, possa essere stato solamente una nobile puerilità e una cosa da principianti”. Per quanto possa apparire riduttiva l’idea di compendiare in una frase un libro, oserei dire che già solo questa breve citazione introduttiva rappresenta la chiave di lettura dell’intero testo, il suo carattere estremamente antidogmatico e antimetafisico.
A costo di sembrare paradossale dirò tuttavia, al contempo, che quest’opera ‒ così colma di temi, riflessioni, intuizioni e provocazioni; nonché di aforismi vivaci e polemiche prese di distanza dai filosofi coevi o precedenti rispetto al Nostro ‒ risulta assai difficile (forse impossibile) da riassumere, specie nel breve spazio d’un articolo. Come se ne esce allora? Io ci provo rubando a Susanna Mati ‒ l’ottima traduttrice e curatrice della nuova edizione di Al di là del bene e del male (Feltrinelli) ‒ ciò che lei afferma nella sua ampia e puntualissima postfazione, dove la saggista nota come in questo scritto nietzscheano compaiano spunti filosofici destinati a influenzare un po’ tutta la filosofia del Novecento: dalla critica alla superstizione del soggetto ‒ visto come irreale ambito stabile ‒ ed all’io-penso ‒ quale illusoria fonte di certezza ‒ a quella dell’umano, troppo umano concetto di causa-effetto; dalla presa di distanza da ogni assolutezza/fondatezza della morale alla posizione della non-verità come condizione necessaria per la vita.
Come ribadirà più volte altrove, Nietzsche prende inoltre nettamente le distanze dal cristianesimo, accusando tale religione di essere all’insegna del sacrificio: “sacrificio di ogni libertà, di ogni fierezza, di ogni autocoscienza dello spirito; al contempo un asservimento e una derisione di sé, un’automutilazione”. Ma la filippica si estende a tutte quante le confessioni religiose, considerate alla stessa stregua di una patologia/nevrosi (die religiöse Neurose), che non a caso è a suo dire collegata a tre prescrizioni emblematico-paradigmatiche: “solitudine, digiuno e continenza sessuale”.
In sintesi, secondo il Nostro, ogni morale ‒ sempre relativa, arbitraria e ipocrita ‒ costituisce “un pezzo di tirannia contro la natura, anche contro la ragione”, rappresentando quindi soltanto una “costrizione” per gli spiriti liberi e insofferenti rispetto ai lacci e lacciuoli di ogni filosofia o ideologia. Ovviamente il filosofo col martello picchia duro non solo sui coevi idealisti, positivisti e utilitaristi, ma pure sulla democrazia e il socialismo, definiti in modo sommario (e sprezzante) ideali degeneri per bestie “da gregge”.
Al contrario di esse, il cosiddetto oltreuomo nietzscheano-zarathustriano obbedisce solo alla “volontà di potenza”, che tuttavia non va identificata con la pulsione a vivere di Schopenhauer: il quale mira ad affrancarsene; semmai Nietzsche intende far propria la suddetta volontà (Wille zur Macht) accettandola pienamente, in una sorta d’amor fati e di entusiastico sì alla vita, per cui il filosofo del futuro (in teoria, almeno) non solo è in grado di sopportare di buon grado ciò che è accaduto e accade, ma “vuole averlo di nuovo come esso è stato ed è, da qui a tutta l’eternità, gridando insaziabilmente da capo”.
Questa frase costituisce l’annunciazione/reiterazione della nota idea (o meglio: figura metaforico-allusiva) dell’eterno ritorno, che, a ben vedere, nozione filosofica vera e propria non è; esattamente come la volontà di potenza non vuole essere dottrina, formula sistematica, in quanto ‒ dice bene la curatrice del volume ‒ “le sue presunte parole d’ordine, non sono nemmeno poi così fondamentali per capire il proprium della filosofia di Nietzsche”.
Lo stesso si può dire riguardo all’essere aristocratico secondo il Nostro, su cui si incentra l’ultimo capitolo di Al di là del bene e del male. Non si tratta, infatti, di un’espressione politico-sociologica, ma esistenziale e personale. L’aristocratico nietzscheano, alla fin fine, è quello che Friedrich avrebbe voluto essere: un uomo audace, che non segue morali/valori tradizionali, ma lui stesso li forgia perennemente rinnovabili; un individuo caratterizzato dalla “sovrabbondanza di potenza” e fin “troppo sano”, quale l’eroe wagneriano Sigfrido. Mentre quella di Nietzsche è appena un’audacia verbale e il suo stato psico-fisico è sempre stato alquanto precario, se egli stesso ‒ come emerge dal vasto e puntuale apparato di note che arricchisce questa nuova edizione dell’opera ‒ in uno dei Frammenti postumi ammette a chiare lettere: “mi manca una salute ferma”.
Nemmeno tre anni più tardi, nel gennaio 1889, appena dopo aver rivisto/concluso la silloge dei poetici Ditirambi di Dioniso, avverrà il cruciale crollo psichico, da cui l’asistematico filosofo tedesco non si riavrà più. Ma profeticamente/esagitatamente, in quella sorta di monologo autobiografico che è Ecce homo, circa un mese prima aveva scritto di sé: “Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono dinamite”.