Fu una discesa vertiginosa negli abissi dell’estrema lontananza. Cristo che muore in croce si lascia sprofondare nel buio del vuoto totale, divorato dalla fine straziante di ogni respiro. Ma sappiamo bene che qui “morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello”: dallo scandalo doloroso dell’annientamento, nella punta più acuta di una condivisione della miseria umana spinta fino all’eccesso, si sprigiona il cambio di rotta che poi esplode nello splendore travolgente del risorto.
Cruciale è il rapporto tra i due poli opposti. Nel corso dei secoli la pietà collettiva, la musica, la poesia e le arti figurative che ne sono la straordinaria proiezione sensibile sono state attirate dal bisogno di dare enfasi privilegiata alla consumazione del sacrificio, invece di accentuare lo sbocco nella redenzione che trasfigura e porta al compimento di una vita senza più tramonto. I misteri della passione hanno finito con l’invadere sempre di più lo spazio religioso, così come è la croce di Cristo il segno che caratterizza l’identità di fede della comunità della Chiesa, fino all’umile gesto che si esegue per mettere in relazione ogni atto con il tutto divino. Il rischio rimasto latente è stato, però, quello di alterare l’equilibrio che dovrebbe tenere legati i due versanti di un unico intero, dove i misteri della gloria non possono certo cedere il passo e ritirarsi nell’ombra davanti alla forza attrattiva del dono supremo di sé che, nel sangue, ha riconciliato l’uomo con Dio.
Il tema della risurrezione di Cristo come snodo decisivo della storia della salvezza, d’altra parte, non poteva certo andare perduto. La missione dell’annuncio, la dottrina insegnata, non lo hanno mai rimosso dalla sua posizione di primato in termini di verità da riconoscere. Anche l’iconografia non ha tralasciato del tutto il compito di incorporarlo in una presentazione dei fondamenti della fede che non si fermasse alla soglia del Venerdì Santo, ma riuscisse a prolungarsi verso ciò che ne costituisce il seguito inesorabile. Non è molto frequente trovare associati insieme, nell’arte di ispirazione cristiana, il lato doloroso della passione e quello glorioso della risurrezione. Ma ci sono anche delle eccezioni che rifiutano deliberatamente la caduta in un dualismo separatore, insistendo sulla solidarietà di ciò che non si dovrebbe mai tenere distinto in ambiti soltanto giustapposti.
Un esempio suggestivo è il dipinto dei Misteri della passione di Cristo del pittore cremonese Antonio Campi, realizzato nel 1569 e oggi al Louvre. Sotto lo sguardo commosso di Maria, di Giovanni e delle pie donne in primo piano, nella finzione devota di un Calvario ristretto nelle sue minime proporzioni si assiepano e quasi si intersecano gli uni con gli altri, animando la scenografica teatralità di un accadere istantaneo, i diversi momenti dell’itinerario di sofferenza che ha posto fine all’esistenza del Figlio di Dio in mezzo agli uomini. La successione dei singoli episodi è compressa in un groviglio di figure in cui risalta più di tutto il senso del continuum di un’unica cornice: dalla spoliazione di un Cristo pensieroso, con la corda al collo, seduto sulla povera terra tra gli aguzzini che si contendono ai dadi le sue vesti, si trapassa immediatamente nell’inchiodamento sulla croce, poi all’innalzamento del crocifisso tra i due ladroni, più in piccolo alla deposizione del corpo piagato, alla reposizione nel sepolcro, quindi agli eventi successivi attestati dal racconto dei libri sacri.
Il fulcro di più toccante richiamo intorno a cui ruota l’intera composizione rimane certamente il supplizio cruento inflitto alla vittima innocente, con ai piedi del patibolo della condanna il compianto della Madre e dei pochi altri rimasti fedeli. Ma ai bordi della tragedia che si consuma si inserisce la mandorla luminosa che circonda il corpo del risorto, ormai non più contenibile nella tomba che lo aveva custodito nel silenzio del Sabato Santo e già sollevato in aria per ricongiungersi con il cielo. Difatti in alto a destra, per chiudere il cerchio, Campi inserisce una vistosa evocazione dell’ascesa di Cristo risorto verso l’empireo dei cori angelici e delle cerchie dei beati, disteso come un ampio mantello protettivo intorno alla massa sferica del cosmo, con la piccola Terra, crocevia della storia del mondo, sospesa al centro. Il tortuoso procedere di questa storia trova, così, nella potenza di Cristo salvatore il suo vertice ultimo di indirizzo.
La simultaneità di unico dipanarsi coerente della vicenda della salvezza è strutturalmente vicina, nell’impianto di base della sua concezione, ad altri generi di rappresentazioni come le allegorie del Vecchio e del Nuovo Testamento, fusi insieme in un intreccio di corrispondenze speculari. Il loro scopo era riconnettere le due linee convergenti della corsa del tempo che aveva il suo asse nell’andare incontro alla promessa messianica, per poi accogliere e trattenere il frutto fecondo della redenzione operata nella Pasqua dall’Uomo della croce.
Questo tipo di messaggi aveva un intento decisamente didattico, molto sfruttato anche nell’area della Riforma protestante. Vi si cimentò uno dei suoi più valenti creatori di immagini, Hans Holbein il Giovane. Agli anni tra il 1530 e il 1535 risale la sua Allegoria dei due Testamenti, con un grande albero al centro che la ritaglia in due campi posti a paragone. Da una parte vediamo i rami secchi, un’aria di tempesta, tinte scure e il sepolcro lacerato della Morte, che fatica a tenere rinchiuso il macabro scheletro di un defunto. Alle sue spalle Adamo ed Eva consumano il peccato da cui tutto è stato corrotto. Il serpente attorcigliato su un’asta a forma di T, lo stesso invocato dal popolo eletto come baluardo di difesa durante la traversata del deserto, alluda alla profezia di una giustificazione che deve ancora venire, sotto il dominio di una Legge condensata nelle tavole consegnate a Mosè dall’alto della rupe che sovrasta la scena. Esattamente sul lato opposto del dipinto, quello dei colori limpidi e dell’energia vitale che fa verdeggiare il fogliame di una sola metà dell’albero bipartito, alla provvisoria inadeguatezza della Legge fa da contraltare l’effusione della Grazia da cui scaturisce il dono della vera “iustificatio nostra”. Ne è mediatore l’angelo che reca l’annuncio a Maria.
Il Salvatore si incarna, nasce tra gli uomini e si propone come l’“Agnus Dei”, a cui Isaia e Giovanni il Battista, interpreti sommi del cumulo di attese maturate nella lunga scia dell’antica alleanza, invitano perentoriamente a guardare. Lo fanno apostrofando un semplice “homo”, senza nessuna insegna né abiti di copertura, che sta ai piedi del tronco di disgiunzione della storia universale nei due segmenti del prima e del dopo: l’uomo nella sua nuda essenzialità di essere da risanare, in concisa rappresentanza dell’intera umanità smarrita.
Alle spalle del Battista si innalza verso il cielo l’immancabile strumento di dolore della tragedia del Golgota. Ma il ricordo del sacrificio, come nella Passione di Campi, non è isolato. In primo piano, a destra, campeggia la figura slanciata del Redentore risorto, che si protende fuori dal sepolcro schiacciando con un piede lo scheletro della Morte, da questo lato del dipinto costretta ormai a una sconfitta senza repliche. In segno di trionfo impugna l’asta di un’altra croce simbolica, che regge uno stendardo agitato dal soffio dello Spirito, mentre un nimbo di luce radiante diffonde un vivido chiarore per rimarcare la sacralità dell’evento che si manifesta. È la “Victoria nostra”, come dichiarano osannanti le scritte didascaliche inserite nel dipinto: l’esatto contrario della funerea aria di desolazione che regna nello spazio antagonista del mondo non ancora investito dal nuovo germe di rivoluzione del creato.
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