Brutta cosa le etichette: una volta che ti si appiccicano addosso, non si staccano più; e peggio ancora se, nel campo in cui ci si cimenta, sportivo o letterario, si è contemporanei, o di poco successivi, a un gigante, una di quelle figure che diventano celebri nei secoli. Tale è il caso di Cassio Emina, storico romano vissuto agli albori della letteratura latina, fra III e II sec. a.C.



Contemporaneo di Catone il Censore, Emina venne per l’appunto definito come Cato dimidiatus, un “Catone a metà”. Eppure, Cassio Emina dovette essere una figura di intellettuale completo, interessato alla storia delle origini di Roma. A questo autore, giuntoci in forma frammentaria e già oggetto in Italia di una bella edizione curata nel 1995 da Carlo Santini, Silvia Stucchi, latinista e collaboratrice del Sussidiario, dedica  un denso volume di fresca pubblicazione nella collana tedesca degli Studien zur klassischen Phiologie, fondata dal grande latinista Michael von Albrecht ed edita dalla Peter Lang: Un saggio sulle radici della riflessione storica a Roma. Studi su Cassio Emina (Peter Lang, 2024).



Il testo si articola in tre parti che prendono in esame tre questioni relative alle modalità e alle forme con cui lo storico antico affrontava il delicato tema del “racconto delle origini”, sempre cruciale in ogni civiltà: in particolare, Silvia Stucchi discute la notizia, riportata da Emina, del presunto ritrovamento della tomba di Numa Pompilio, il secondo re di Roma, fondatore dei culti religiosi e dei collegi sacerdotali, nel cui sepolcro sarebbero stati ritrovati anche dei libri contenenti dettami della filosofia pitagorica e profezie, testi che però vennero prontamente distrutti per decreto del senato.



La seconda notizia che Silvia Stucchi discute a partire dai frammenti superstiti di Cassio Emina riguarda invece un insolito culto, quello dei Lares Grundiles, che sarebbe stato istituito da Romolo, regnante su Roma insieme al fratello Remo. La notizia, molto insolita, configura una storia delle origini di Roma, che, almeno per un periodo, esclude il fratricidio, e offre all’autrice del saggio l’occasione di una serie di riflessioni su come, storicamente, sia stata interpretata la rivalità tra fratelli all’atto della fondazione dell’Urbe.

Nello specifico, legare questa notizia al culto delle divinità note come Lares Grundiles appare molto interessante: l’aggettivo grundiles è stato da Emina ricondotto al verbo “grugnire”, ma il fatto che si parli di Lares, ovvero di divinità del culto familiare, fa pensare che esse avessero piuttosto a che fare con la grunda, ovvero con l’elemento architettonico della gronda del tetto (parola che in verità compare una volta solo in un testo molto più tardo), dove era uso che si inumassero i bambini morti in tenerissima età: tali sepolture erano dette suggrundaria.

Dunque, Romolo e Remo, fratelli almeno per un dato tempo concordi, avrebbero, in un periodo, regnato insieme, configurando una situazione di diarchia (che, per un romano vissuto nel II sec. a.C., ovvero nella fase repubblicana, potrebbe essere vista come anticipazione della duplice carica dei consoli); inoltre, i due fratelli-sovrani avrebbero anche istituito un culto di tipo familiare. Per saperne di più, consiglio di leggere, della stessa autrice, Dai grugniti alle gronde, che ci porta dalla lontana età repubblicana… sino, inaspettatamente, a Conan Doyle.

Il terzo capitolo del saggio, infine, ci porta al tramonto dell’età regia, al regno di Tarquinio il Superbo, ultimo e odiatissimo dei sette re di Roma: nel corso del suo regno, gli operai impegnati nella costruzione della Cloaca Maxima, una delle grandiose opere architettoniche che fecero grande la Roma dei Tarquini, si suicidarono, in segno di protesta contro il sovrano, che li avrebbe costretti a un lavoro degradante e servile come quello del costruire le fognature; ma Tarquinio avrebbe reagito a questo affronto ordinando che i cadaveri di quegli operai ribelli venissero crocefissi. Anche di questa notizia la Stucchi opera una attenta esegesi, ritrovando in essa il tipico modo di procedere di Emina nella narrazione del passato remoto di Roma, e la sua forma mentis tipicamente razionalista.

La domanda sottesa ai tre densi capitoli del volume, e che fa dal fil rouge all’analisi dell’autrice, è la seguente: che cosa significava davvero scrivere di storia nella Roma arcaica? Agli albori della letteratura latina, nel II sec. a.C., si incontrano, come si diceva sopra, due grandi personalità che si occupano, scrivendo in latino e non più in greco, della storia e delle origini di Roma: Catone il Censore e Cassio Emina.

Di questi due autori, il primo è universalmente noto per la carica della censura, che rivestì con inflessibile severità, per l’austerità dei costumi, per la sua battaglia culturale in favore del mos maiorum, il “costume degli antenati” contro gli influssi greci, oltre che per le sue opere letterarie: in primo luogo, il De agri cultura, un trattato (con cui si inaugura il genere didascalico latino), rivolto ai possidenti di villae di media entità, nerbo della società e dell’economia tradizionali romane; e poi le Origines, storia di Roma in sette libri, con una singolare caratteristica: la totale assenza di nomi propri e l’accento posto sul valore della collettività e non delle singole figure di condottieri e capi carismatici.

Nonostante la fama di Catone abbia pressoché polverizzato quella di Emina, vissuto poco dopo di lui, questo storico, di cui ci sono stati conservati solo una quarantina di frammenti, doveva essere una personalità interessante: infatti, è il primo autore che attesti in latino la parola philosophia (benché aggettivi derivati dal termine siano già in Plauto, precedente a Emina). Inoltre, Emina rivela una interessante frequenza – che potrebbe anche essere casuale, dovuta ai capricci della tradizione che ci ha restituito così poco della sua opera – di termini che riguardano la scrittura, la figura dello scriba e gli attrezzi scrittori.

Ma quel che più colpisce leggendo quanto ci resta dell’opera di Emina (forse intitolata Annales, come era frequente all’epoca), è che in essa troviamo una forma mentis che potremmo definire senza timore razionalistica. Essa si avvale degli strumenti dell’eziologia (ovvero, del ritrovare in fatti ed eventi del passato le cause di usi e tradizioni del presente), dell’eponimia (ossia, del ricollegare i nomi di usanze e tradizioni a eroi e personaggi remotissimi come fondatori o autori), quando non dell’evemerismo. Quest’ultimo termine deriva dal nome di Evemero di Messene, il pensatore di lingua e cultura greca che per primo ipotizzò come gli dèi altro non fossero se non eroi civilizzatori e benefattori vissuti in tempi remotissimi, ritenuti a lungo andare esseri divini dagli uomini, riconoscenti per i benefici ottenuti.

Dai frammenti analizzati da Silvia Stucchi, che offrono, del resto, solo uno scorcio sui molteplici interessi di Cassio Emina, emergono così i lineamenti di un intellettuale colto e sofisticato, come larga parte degli autori della letteratura latina arcaica, una letteratura che nasce moderna, alessandrina, ricercata, e che, per corroborare il suo messaggio e proiettarlo nel futuro, scelse una via sempre valida: indagare il passato.

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