Cerco don Claudio per la prima volta alcuni anni fa. Sono in una parrocchia del Varesotto al confine con la Svizzera e, quasi all’improvviso, il vescovo mi chiede di andare a Cinisello Balsamo. Dopo alcuni mesi vedo che il contesto domanda una nuova vita. Tante delle cose che facevo coi ragazzi di prima, adesso non posso più farle. Decido così di andare a insegnare alle scuole medie del quartiere, non più alle superiori – come avevo sempre fatto e come faccio anche adesso –, perché qualcosa mi dice che c’è bisogno di entrare nel loro mondo prima che divengano irraggiungibili. Tutti i giorni, fuori dall’oratorio, si radunano bande di ragazzi e ragazzini che vogliono far capire che quello è il loro territorio. Risse, scorribande, insulti, canne… i gradini di accesso alla chiesa diventano spesso impraticabili e, talvolta, pericolosi. Riconosco alcuni miei alunni e questo mi permette, nel tempo, di entrare in rapporto con tanti di loro. Quando la situazione diventa particolarmente complicata decido di cercare don Claudio. Capisco che non posso stare con loro improvvisandomi o, come se nulla fosse, dedicandomi ai “soliti”. Faccio la stessa esperienza che don Claudio racconta nel suo libro: “Mi sentivo impotente: non sapevo come far fronte a quel disagio che interpellava potentemente la mia coscienza. Potevo rispondere solo offrendo un panino e una bibita?”.



La polizia sosta spesso nel parcheggio fuori dall’oratorio, ma nemmeno quello basta. Don Claudio mi raggiunge subito nei giorni seguenti con alcuni amici. Iniziamo una vera e propria storia che ha portato noi a visitare spesso la sua comunità, per sfide a calcetto tra i ragazzi, e loro a venire da noi per incontri e testimonianze. Nel libro appena uscito, dal titolo Non vi guardo perché rischio di fidarmi. Storie di cadute e di resurrezione (San Paolo, 2024) don Claudio accompagna il lettore al cuore della sfida educativa, anzitutto di sé stessi. Non c’è situazione in cui non emerga questa urgenza di mettersi in gioco abbandonando il ruolo delle persone perbene che possono sentenziare sugli altri, soprattutto su chi ha sbagliato. Siamo tutti in cammino, come dice bene a pag. 18 facendo riferimento all’esperienza del grande padre della fede: “Abramo parte da Ur, in Mesopotamia. Ciascuno di noi, soprattutto quando si diventa adulti, corre il rischio di chiudersi nella propria Ur e smette di cercare, di camminare, di domandare”.



Non mancano sferzate, nel testo, proprio al mondo degli adulti in tutti gli ambiti, anche nella Chiesa. C’è un modo di diventare grandi, infatti, che intiepidisce, anestetizza, annoia. Si perdono per strada le domande, le inquietudini di cui siamo fatti, e si inizia a “parlare d’altro”. Ciascuno trova il suo argomento: il lavoro, i soldi, la politica, i massimi sistemi…l’importante è che non si parli di sé. Tutto diventa un grande discorso che non scomoda nessuno. Si crea così una voragine tra noi e i nostri ragazzi che, spesso, per farci vedere che esistono ancora commettono degli errori che ci costringono a guardarli. Nel testo, però, più volte si capisce che questa voragine non nasce solo con gli altri, ma anche verso se stessi: “Non esiste uscita di sicurezza; occorre lasciarsi travolgere dai nostri desideri mancati per ritrovare la realtà di noi stessi in pienezza” (p. 69).



La fuga da sé è uno dei pericoli più grandi di sempre. Per questo Dio permette l’incontro con dei padri che ci aiutino a non scappare da noi stessi, rischiando tutto sulla nostra libertà, anziché riempirci di raccomandazioni con l’illusione di risparmiarci gli errori. Alla fine del primo capitolo, don Claudio racconta la sua storia e gli incontri che lo hanno segnato, in particolare il rapporto con il card. Carlo Maria Martini. Emerge la personalità di un arcivescovo coinvolto personalmente con l’esperienza di quel giovane prete che iniziava a sentirsi addosso lo sguardo sospettoso dei superiori, perché non faceva le cose che facevano tutti gli altri e come si sono sempre fatte. Il card. Martini gli regala un libro con questa dedica: “A don Claudio, che vede il mondo con gli occhi di Dio”. Chissà quanti sarebbero scoppiati a ridere, proprio tra i collaboratori dell’arcivescovo, eppure ci aveva visto giusto.

Nel periodo in cui mi sono preparato al sacerdozio, e in parte anche adesso, si è fatta un gran battaglia contro la paternità. Progetti, piani pastorali, organizzazioni avrebbero dovuto prendere il posto della personalità del singolo sacerdote. L’ideale, secondo alcuni, era che le parrocchie non si accorgessero nemmeno del passaggio dei vari preti chiamati a guidarle. Dopo sedici anni di sacerdozio posso dire con assoluta certezza che nessuno cresce senza padri e che la paternità è il nome non corrotto dell’autorità. L’ho sperimentato per la prima volta alcuni anni fa. Ero in vacanza con i ragazzi di Cinisello Balsamo. Dopo due giorni scopro che quattro di loro avevano portato delle sostanze stupefacenti e le avevano nascoste in camera. Cosa faccio? Aiutato dagli amici preti, con cui condividevamo l’esperienza estiva dei ragazzi, decido di mandarli a casa. Mentre vanno in camera a fare le valigie chiamo tutti gli altri in salone per dare le ragioni della mia scelta. Ma lì succede una cosa imprevista: mentre inizio a parlare mi viene il magone e piango davanti a tutti. Quei quattro ragazzi, infatti, erano tra quelli a cui ero più legato. Ho scoperto cosa vuol dire essere padre da quelle lacrime, e l’hanno scoperto anche loro. Non dimenticherò mai l’abbraccio che ci siamo dati prima che prendessero il pullman per tornare a Cinisello. Nel libro don Claudio afferma che “L’esperienza della fiducia ci porta, nel tempo, a un livello più profondo della nostra vita, perché ci spalanca a un senso della realtà altrimenti inattingibile” (p. 49). La fiducia ridata a quei ragazzi ha permesso un rapporto con loro indistruttibile. Il tempo è passato e le nostre strade si sono separate, ma ci siamo sempre.

Cosa permette, dunque, di avere uno sguardo come quello che trasuda in ogni pagina e in ogni racconto del libro? La certezza di essere tutti bisognosi di misericordia. Questa parola appare verso la fine, a pag. 147. Don Claudio sta raccontando dell’incontro fra i ragazzi della comunità e Carolina, mamma di Lorenzo ucciso a diciotto anni da un coetaneo. Carolina, a un certo punto, dice così: “Noi pensiamo che quando uno sbaglia deve pagare marcendo in carcere. Invece, perché il mondo possa vivere nella pace e nella giustizia, serve l’opposto, serve usare misericordia”. Vengono in mente le parole di don Luigi Giussani nel 1983 durante un incontro in preparazione al Giubileo della Redenzione: “Una ragazza, una volta, mi ha telefonato dalla casa di cura in cui era stata ricoverata e mi ha detto: ‘Sa, don Giussani, ho capito che cos’è la misericordia’. Io ho chiesto, un po’ stranito: ‘Cos’è?’. ‘È la Giustizia che ricrea’ e poi ha attaccato. Raramente i miei maestri mi hanno detto una verità così. ‘Giustizia che ricrea’, perché non oscura ciò che sono, ma mi dà la forza di una Presenza, per cui mi ricostituisce mille volte al giorno. L’uomo non è più definito dal suo errore, ma è definito da questa Presenza, riconosce questa Presenza come tutto di sé. Questo si chiama ‘amore’, perché l’amore è affermare un Altro. Perciò l’uomo non è più definito dal suo errore, ma è definito dall’amore, vale a dire dal riconoscere Te, o Cristo”.

È un altro mondo, quello che Cristo ha reso possibile dentro il nostro mondo, e l’avventura più bella della vita è scoprirlo, ciascuno dentro il proprio percorso. Come scrive Baby Gang in una storia su Instagram con cui don Claudio chiude il suo libro, che è tutto da leggere: “Ho sempre saputo che sarei diventato qualcuno fin da piccolo. Non sapevo cosa, ma la fede mi ha sempre fatto andare avanti. E, piano piano, grazie a Dio si stanno realizzando le cose che ho sempre desiderato. Senza fede non si va da nessuna parte. Non importa di che religione sei – cristiano, musulmano, ebreo – l’importante è capire che Dio esiste e che non siamo in questa terra solo per mangiare e per dormire. Ognuno di noi ha un percorso e ognuno fa il suo”.

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