L’arte e le classifiche di Amazon non hanno nulla a che spartire tra loro. L’arte cammina su un sentiero tutto suo e occorre inseguirla, andarla a cercare, mettersi sulla scia che fa mentre attraversa il grigio delle strade, quando appare per caso di fronte ai nostri occhi distratti. E ad alcuni scrittori occorre dire grazie, perché non fanno giochi di scrittura.



Non tirano via le righe per riempire pagine e mentre in questi giorni, in Italia, viene acclamato come esempio di grande narrativa l’esordio di un’influencer (simpatica, intelligente, per carità) che ha scritto un romanzetto di trecento pagine sulla storiella d’amore del liceo di turno, ebbene in Italia c’è chi scrive e scrive per davvero, e non solo dovrebbe scalare le classifiche, ma noi tutti bisognerebbe rivolgergli un tributo, un segno di riconoscenza. Occorrerebbe leggere, per dirla brevemente, leggere appassionatamente quello che scrivono.



Sanguina ancora, titolo meraviglioso. Ma il sottotitolo è ciò che trascina dentro le pagine di questo saggio-romanzo: “l’incredibile vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij”. Un autore che sbatte la testa sull’intera bibliografia di Dostoevskij da decenni e prova a tradurlo, a capirlo, a ridirlo, insomma a trasferire Dostoevskij e la sua vita nella maniera più lucente al mondo, non solo occorre leggerlo, ma seguirlo. E tenergli la mano nel tentativo assoluto che compie nel cercare di far respirare le opere di uno scrittore su cui si è scritto e detto e tentato di estrapolare di tutto.



L’impresa di Paolo Nori infatti si aggiunge come un prezioso tassello in un mosaico di voci appassionate di impresari, un tassello davvero commovente, non più illuminante o rivelatorio, ma commovente, nel senso proprio dell’aggettivo. Sì, perché l’autore, oltre a rivelarci preziosi aneddoti sulla vita di Dostoevskij, oltre a farci scoprire che Dostoevskij finì quasi ucciso per aver letto in pubblico una lettera di Vissario Belinski (critico e tra i più grandi estimatori di Dostoevskij) indirizzata a Gogol (lettera che il critico scrisse dopo aver letto Brani scelti dalla corrispondenza, ultimo libro scritto da Gogol in cui l’autore difende duramente, contrariamente a quanto pensava il critico, la superiorità dei proprietari terrieri in Russia e l’aristocrazia dominante sulla servitù della gleba) in cui il critico esprimeva apertamente il suo disappunto per le posizioni conservatrici di Gogol; che Dostoevskij la lesse nel circolo di rivoluzionari socialisti da lui e altri fondato, che venne perseguito dal regime, e a causa di questo vide la morte in faccia; che per Dostoevskij dire “italiano” era dire un sinonimo di “meraviglioso”, e lo era ancor prima di aver visto il nostro paese; che Dostoevskij amò il fratello più di ogni altro essere umano al mondo, nonostante le molte mogli, e quando finì in Siberia condannato ai lavori forzati per quattro anni gli scrisse una lettera accorata in cui diceva: “Fratello caro, la vita è vita ovunque, la vita è in noi stessi e non fuori. Accanto a me ci saranno altre persone, e essere persona tra le persone e rimanerlo, tra loro, per sempre, in qualsiasi circostanza, non essere triste e non arrendersi: ecco cos’è la vita, ecco qual è il suo scopo” e lo scriveva sapendo di aver di fronte quattro anni di lavori tra i ghiacci, lontano dai suoi affetti, potendo leggere solo il Vangelo; che Dostoevskij iniziò a scrivere Il giocatore per ripagare i suoi debiti, contratti al gioco, impegnando tutti i beni della povera moglie; che quando uscì Delitto e castigo Dostoevskij venne acclamato come nuovo Gogol, cioè come nuovo padre della letteratura russa, nuovo profeta, nuovo salvatore della patria, e che in Russia a quei tempi gli scrittori erano venerati, c’era chi li adorava come fossero dei, chi praticava la religione Puskin o Tolstoj imitando quello che facevano e dicevano Puskin o Tolstoj, o cose simili, come se in Italia, scrive Nori, i ragazzi di vent’anni si sedessero e si dicessero “e se oggi pomeriggio leggessimo Foscolo, signori?”; che Dostoevskij fu uno matto d’amore per la Russia e quando Strachov gli diceva che le donne inglesi erano più belle delle donne russe andava su tutte le furie.

Ecco, Nori ci regala un ritratto appassionato, viaggiando dentro la vita di Dostoevskij, ci fa sapere molto di quest’uomo “goffo, calvo, un po’ gobbo, disperato, confuso, contraddittorio, che riesce a morire nel momento del suo più grande successo, così simile a noi”. Ma con queste parole, “così-simile-a-noi”, Nori fa qualcosa di più: ci trascina nel vortice di racconti attinti dalla sua vita che decide di mettere in scena nel romanzo, facendo dialogare la sua vita con le storie delle vite scritte da Dostoevskij.

La vita così, suggellata nella letteratura, chiama a rapporto la vita. Nori ci parla dell’amore per Togliatti (nomignolo con cui chiama ironicamente la moglie), con cui si separa per un po’, e ci dice, come scrive Tolstoj in Guerra e pace, che le persone con le quali abbiamo a che fare determinano le nostre orbite, diventano il nostro sistema solare e che durante il periodo della separazione dalla moglie lui era senza sole, senza un’orbita, non aveva un giorno e una notte.

Che quando lesse per la prima volta Delitto e Castigo si sentì come trafitto da una freccia che continua a fargli uscire sangue dal costato, come scrisse Rozanov, per cui Dostoevskij è “un arciere nel deserto, con una faretra piena di frecce che, se ti colpiscono, esce il sangue” e Nori si chiede: perché sanguino ancora? E in un eccesso di sincerità ci dice che lui si sente un po’ come l’uomo del sottosuolo, un malvagio, un corrotto, uno buono a nulla e che a volte, forse, se ne compiace anche. Ha coraggio per rivelare una cosa così. Ci racconta delle sue incertezze, delle certezze salde della moglie, delle sue paure, delle sue fragilità, della figlia (Battaglia, altro soprannome ironico) che è per lui “la felicità più grande”, come scriveva Dostoevskij, “abbiate dei figli, non c’è al mondo felicità più grande!”.

Ci racconta delle notti bianche, quelle tra giugno e luglio, in cui da anni porta appassionati a leggere romanzi russi in Russia, e lì legge, una notte, ad esempio, un passo tratto da un saggio di Iosif Brodskij, Guida a una città che ha cambiato nome. Ci racconta che Brodksij scrive che “la letteratura russa ha cominciato a correre dietro alla realtà, negli anni Venti dell’Ottocento, e trent’anni dopo l’ha raggiunta”, intendendo dire che sarebbe stato più facile trovare, in quel tempo, di fronte all’edificio in cui la terza sezione aveva interrogato Dostoevskij, turisti che parlassero dell’interrogatorio di Raskol’nikov, protagonista di Delitto e Castigo, da parte dell’investigatore Porfirij, altro personaggio della storia, piuttosto che dell’interrogatorio di Dostoevskij da parte della polizia segreta.

Insomma “l’invenzione dell’uomo senza cappello e senza testa era diventata, secondo Brodskij, più reale della realtà” ci fa sapere Nori, scoprendolo durante uno dei suoi viaggi d’amore in giro per la Russia con appassionati che lo seguono.

È soprattutto per questo che il tentativo di Nori è commovente. Se la narrativa, la poesia, l’arte non sanno fare questo, chiamare a rapporto la vita, allora non servono a niente, sono solo decorazione, esercizio di stile. A noi in questo tempo fragile occorre imparare dalla fiducia di chi continua ad accendere i suoi cerini nella notte. E a farli brillare per gli altri.

Il coraggio di scrittori come Nori, gente che tenta l’impossibile, come scrivere un libro sulla vita di Dostoevskij. Il coraggio di chi quest’anno celebrerà Dante fuori dai discorsi impolverati delle accademie, parlando di lui nelle piazze e nei giardini. Ci occorre il talento degli artisti che continuano a dire, senza tacerle, le contraddizioni e le meraviglie della realtà. Sfiorando il ridicolo. Che a volte, come disse un altro grande romanziere italiano, rischiando di sfiorare il ridicolo, si rischia di sfiorare il sublime.

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