Uscito per le edizioni de La vita felice nel novembre 2019, Notizie da Patmos è la quarta raccolta di poesie di Fabrizio Bregoli. Ingegnere con il vizio della precisione anche in poesia, Bregoli prosegue il suo percorso con questi nuovi testi dalla cui apparente linearità, come avverte Piero Marelli nella sua prefazione, non bisogna lasciarsi ingannare: qui si avvertono echi montaliani, si è in presenza di “un’attesa di un annuncio, di un miracolo o di una rivelazione tutti attraversati da una voce che si è spogliata del superfluo poetico tracciato in molta lirica di questi anni”.



Il poeta stesso, ricordando la sua passione per le scienze esatte, chiude con questa affermazione il testo introduttivo a tutta la raccolta: “L’algebra è, nel suo stesso atto costitutivo, anello di congiunzione. Arte della riparazione. (Come la poesia)”. La poesia dunque si presenta qui come arte consolatoria? Già nella prefazione al libro d’arte Onora il padre, uscito nel marzo 2019 nella collana Fiori di torchio del Circolo Culturale “Seregn de la memoria” e contenente alcuni dei testi raccolti ora in questo Notizie da Patmos, dicevo che in realtà la poesia non consola proprio: la parola poetica non può medicare la ferita di un tempo non dato, di un verbo non coniugato per la distanza, per il vuoto che abita un rapporto che appare tutto segnato dall’estraneità. Perché proprio di questo rapporto, del rapporto con il padre, racconta in gran parte questo libro.



Nell’arte giapponese del XV secolo chiamata Kintsugi – che significa letteralmente “riparare con l’oro” – i vasi preziosi che si erano rotti, venivano ricomposti evidenziando le linee di frattura con una pittura d’oro. Anziché nascondere le crepe, l’artista le valorizzava, facendo sì che la memoria dell’offesa non venisse semplicemente cancellata, ma potesse segnare un nuovo inizio.

Ecco, qui, nei versi di Bregoli, la frattura, la distanza con un padre non viene ricucita attraverso le parole; piuttosto invece le parole, seppure determinate da un’impotenza e da una incapacità invalicabili, affondano la loro lama nel mistero di questa lontananza, lasciandolo a stagliarsi come una roccia alta e dura, impenetrabile e irrevocabile.



La dichiarazione finale del testo di pag. 31, quel “E non mi manchi. Assurdo d’una colpa che non pesa” non sembra lasciare dubbi: si tratta di un doppio tribunale, di un figlio che ha imputato al padre la mancanza del suo sguardo su di lui; e, dall’altro lato, di un figlio che si ritiene anch’egli colpevole per essere privo della nostalgia del padre. Solo il perdono fa saltare ogni rappresentazione retributiva della giustizia, non rispondendo a nessuna logica di scambio: ma in questi testi, in cui i protagonisti principali sembrano essere sovrastati da un tempo e da un silenzio che appaiono come il volto di un destino segnato e immodificabile, la voce del poeta sembra rimanere inchiodata al registro di un’accusa che si ripete, sottraendosi alla possibilità di una diversa evoluzione del conflitto.

Ma non è proprio così: nella poesia, cioè in quell’esercizio della parola che è stata negata nel rapporto, il poeta mostra il desiderio di avvicinarsi a una sorta di preghiera che possa ricostruire, come quel filo d’oro dell’arte Kintsugi, non il vaso che si è rotto nella sua forma originaria, ma un nuovo inizio. Come se, forse, toccasse proprio alla poesia di rendere possibile una nuova forma, istituendo una nuova lingua capace di rinominare la vita che sembrava perduta e in cui la frattura sembra trovare, pur rimanendo tale, una sua luce diversa. Come è possibile riscontrare in numerosi testi della sezione che s’intitola Padre nostro in cui lo stesso poeta confessa ancora a proposito del compito delle parole della poesia rispetto alla ferita della distanza: “in fondo non è proprio/ quest’ostinarsi a scriverne ammissione/ di non saperle ancora, nemmeno io/ davvero dire?” In questa affermazione, espressa non a caso sotto forma di domanda, non è forse possibile ancora intravvedere uno spiraglio? Non è forse qui che accade in controluce l’idea dell’accettazione del segreto di un figlio, e contemporaneamente, dell’accettazione del segreto di un padre?

In questo libro, come nelle sue raccolte precedenti, Bregoli dimostra di non sottrarsi alle questioni fondamentali che l’esistenza pone a ciascuno di noi, non solo lasciandosi interrogare sul senso del tempo e dell’amore, non solo scolpendo con la sua scrittura in modo asciutto e preciso le forme di questa esistenza; ma anche tornando sempre a fare i conti con la parola, con la stessa materia di cui si serve per avvicinarsi a queste forme e che appare forte e vittoriosa proprio là dove accetta la sua sconfitta.