Buon Natale, certo, ma buono per chi e buono perché? Il regalo più inatteso di queste feste natalizie mi è arrivato da Fabio Cavallari, giornalista e scrittore dalle tematiche controcorrente di cui mi sono occupato qualche mese fa in occasione del suo bel Mutazioni. Storia di Maricia, un medico che si scopre paziente uscito da Lindau. Dico “regalo” perché, evitando di sottrarsi alla “giusta provocazione”, come l’ha definita, di rispondere alla domanda “cosa vuol dire Buon Natale per un non credente”, egli ha fornito via social una risposta che costringe anche i tiepidi credenti di oggi a porsi la stessa domanda e a cercare una risposta che non affondi nella ripetitiva banalità del già detto.
“Non basta il proprio impegno civile, avere pensieri solidali, rispetto per gli altri, una buona dose di anticonformismo” scrive Cavallari e neppure “farsi prossimi a quella Chiesa che talvolta appare una gigantesca Ong” così come “non basta neppure quel pauperismo che piace tanto a taluni non credenti” oppure “trasformare il Natale in una tradizione culturale, popolana” o addirittura in un “gioco filosofico, riempitivo domenicale, architettura psicanalitica”.
Tanti “non basta” che, invece, finiscono col bastare al popolo dei “credenti della domenica” o addirittura “delle feste comandate”, del cristianesimo ridotto a fotocopia in una Chiesa le cui “parole sono diventate logore” per riprendere un macigno lanciato di recente nello stagno dei riti dal vescovo di Pinerolo, monsignor Derio Olivero. Un altro monsignore da prima linea, Tonino Bello, ha lasciato scritto: “Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi Buon Natale senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine del calendario”.
Dunque che significato ha per un credente di oggi, per un cristiano capitato a rendere testimonianza della propria fede nell’epoca più secolarizzata della storia, questo augurio ridotto a latte e miele, a sdolcinato consiglio per gli acquisti nel quale il fatto storico accaduto a Betlemme – la “casa del pane” o “della carne”, a seconda dell’etimologia del nome – è divenuto lo sfondo logoro e trito per luculliane abbuffate senza senso? Può apparire un paradosso che la risposta a “cosa vuol dire Buon Natale” arrivi da un uomo “privo della grazia della fede” come si definisce lo stesso Cavallari: “Il riconoscimento che tale pronunciamento è riconducibile solo ad un fatto: all’avvenimento di Cristo, all’imprevisto che cambia la storia. Tutto il resto è pura retorica, è abitudine e costume sociale”.
Ecco, non c’è altro. Non c’è “pranzo con i tuoi” o cenone che tengano, non c’è “Natale che quando arriva, arriva” o invito ad essere più buoni perché “a Natale si può dare di più”, perché tutto ciò non basta, non può bastare, non può reggere il logorio del tempo. O c’è un fatto o non c’è nulla. “Da non credente posso solo riconoscere, rendere palese il mio passo caduco, vivendo all’interno di questa società secolarizzata, lasciando che la domanda aperta sull’uomo e sul sacro non mi permetta mai di cadere nel ‘buon natale laico’, ossimoro teatrale e surreale dei nostri tempi”.
Può apparire paradossale, ma anche un non credente che però non si accontenta di non credere può suggerire una via d’uscita alla banalità. Cosa significa per un cristiano del XXI secolo augurare Buon Natale se non riconoscere l’attualità di un avvenimento accaduto e che continua ad accadere?
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