Andrea Di Consoli – Davide, da anni mi vado convincendo che il nostro Paese si sia profondamente scristianizzato. Siamo nel pieno di un’epidemia e non vedo processioni, non vedo messe, non sento preghiere. Quello che era il Paese più cristiano del mondo sta affrontando un’epidemia con il solo conforto della scienza.
Davide Rondoni – Dipende dal punto di osservazione in cui ci si mette. Se si osserva la questione dal punto di vista della comunicazione ufficiale allora hai ragione, sembrerebbe proprio così come dici tu, perché la comunicazione ufficiale accede a un immaginario e ad antropologie che non sono cristiane. Però c’è anche un’altra comunicazione e un sentimento popolare che sono profondamente cristiani. Non voglio fare una contrapposizione così netta, ma c’è anche una comunicazione diffusa della nostra cultura cristiana. E comunque, in generale, anche in un momento come questo i segni della fede non mancano. Anche se a volte sono svuotati come crisalidi sentimentali, invece che riferiti a un’esperienza dove centrale resti la figura scandalosa di Cristo.
Eppure gli italiani sono in attesa di un vaccino, di una medicina, di una risposta da parte dei virologi e degli epidemiologi. Qualsiasi altra riflessione sembrerebbe non riguardarli. Almeno questa è la mia sensazione.
In realtà in questi anni, come han mostrato da Foucault ad Agamben, ci si è molto orientati sulla biopolitica. Si è capito che l’azione politica si sarebbe trasformata dal tentativo di far coesistere interessi concreti, territoriali, economici a meccanismo in difesa o oppressione delle argomentazioni riguardanti il “bíos”, la pura vita. In questa vicenda io vedo un grande fallimento della scienza; o, meglio, della sua capacità di intervento sulla realtà. Se è vero che in una conversazione di circa dieci anni fa Bill Gates parlava già delle guerre virali future, come mai la scienza ha dormito? Come mai la tecnologia ha dormito? Uno non può sempre dare la colpa alla politica, è troppo facile. L’organo di controllo europeo sulla salute – composto da tecnici e scienziati che ci costa 52 milioni di euro l’anno – a gennaio diceva che non c’era nessun problema grave. Però abbiamo preso la decisione di inchiodare il Paese a bollettini scientifici che di scientifico non hanno nulla. È una scelta politica, non scientifica, a cui la scienza ha dato avallo e “consacrazione”, e abbiamo visto che presunti eminenti scienziati in televisione hanno commentato l’epidemia cambiando idee molte volte dando credito a questi bollettini farlocchi. Questo fa capire quanto la scienza non possa mai fornire da se stessa una lettura ultima dell’azione della realtà. Come aveva già messo in luce l’importantissimo dialogo tra Ratzinger e Habermas di qualche anno fa.
Da più giorni la Lombardia è sotto attacco. Non soltanto da un punto di vista sanitario, ma anche da un punto di vista politico e mediatico. Tu sai bene quanto io sia vicino alle ragioni del Sud, ma conosci anche bene la mia onestà intellettuale, la mia indipendenza di giudizio, la mia ammirazione per l’operosità del Nord, per la sua etica del lavoro. Insomma, io trovo inaccettabile che una delle sanità più efficienti del mondo stai passando per una sanità gestita da cialtroni. Lo trovo ingiusto. Anche considerando il fatto che sinora decine di migliaia di meridionali hanno trovato concrete risposte mediche che al Sud non hanno trovato in ragione di una gestione spesso clientelare della sanità.
Gli italiani non sono scemi, capiscono che questa situazione si deve a una serie di fattori. Questa è una “guerra” combattuta per sistemi sanitari. E le informazioni sono di difficile decifrazione. Figurati che il governo cinese ha ammesso solo da poco che c’è stato qualche problema in piazza Tiananmen vent’anni fa, e dunque la mia fiducia in ciò che dicono i canali ufficiali dei cinesi è pari a zero. Questa è una “guerra” che sta creando grandi spostamenti economici, che il professor Giulio Sapelli ha illuminato molto bene, e che ha messo in crisi i sistemi sanitari. Una volta si bombardavano i pozzi di petrolio o le ferrovie, ora si bombardano i sistemi sanitari. E se voglio colpire un Paese lo colpisco alle palle non al gomito. Insomma, qualche domanda sul perché l’epidemia sia scoppiata in Lombardia e non a Caserta io me la porrei. Perché sarà anche un pipistrello, ma è un pipistrello molto intelligente. Certo rimane il fatto che la Lombardia esprime il meglio di un sistema sanitario generalmente fragile. E quindi dobbiamo fare tutti i conti con la perdita dell’illusione che lo Stato ci faccia godere la vita e intanto riesca a farci anche da infermiere. In altre parole: l’illusione che gli Stati con i propri sistemi sanitari (pur diversamente congegnati) e i propri sistemi politici possano farci da balia e garantire la qualità e la responsabilità della vita ha incontrato qualche problema.
Questa epidemia sta facendo deflagrare tutte le contraddizioni della nostra società. Per me questo non è un male, anzi. Considero vitale questa dialettica per sciami, questo continuo interrogarsi, anche conflittuale e problematico.
Intanto vedo che molti di questi che hanno improvvisamente preso a cuore i vecchietti abbandonati negli ospizi sono quelli che avrebbero votato “sì” per l’eutanasia di Stato, che di quelle persone farebbe strage con applauso. Quindi io vomito di fronte a queste cose. Non credo che gli italiani stiano pendendo dalle labbra degli scienziati ma, molto saggiamente, sono disposti a qualche sacrificio per tutelare la salute dei parenti, degli amici e dei conoscenti. Ed è certo che, al di là della retorica da serie americana sui medici in prima linea – medici e personale a cui il governo però non dà aumenti – noi abbiamo visto morte reale, sacrificio reale, dolore reale. È a questo che gli italiani rispondono, non agli scienziati. Gli italiani rispondono, patiscono e com–patiscono questo dolore.
Tu hai recentemente posto la questione delle chiese chiuse al culto. L’Italia non ha capito bene a mio avviso il tema che hai posto.
Una civiltà che presenta come necessaria la fila al banco dei salumi e come non necessario il rito religioso fa una scelta di campo. E nel nostro caso di Paese cristiano è ancora più grave. Un po’ di casino c’è stato, con la mia presa di posizione, che era una supplica, che è stata ripresa da molti, anche da alcuni giornalisti noti e politici. Gli italiani non amano la ghigliottina per fortuna, non sono robespierriani, e quindi non è mai la piazza che misura l’Italia, ma le scelte intime, spesso invisibili al sistema mediatico. Sulla questione delle chiese c’è stata una presa di coscienza pubblica, ringrazio i vescovi che in privato e in pubblico han risposto con parole che comunque rilanciano e sollevano questioni, perché se sottrai a un popolo il corpo di Dio risorto mentre la realtà costringe tragicamente a qualche domanda sul senso del proprio corpo, ecco che la questione rimane aperta.
L’Italia si sta trovando di fronte a uno sbandamento di senso. La malattia e la morte non sono incidenti di percorso, ma eventi reali a cui bisogna dare un senso. Dare un senso è una lotta immane, è la vera guerra dell’uomo.
La ricerca del senso della vita è la questione per tutti. Ci sono contesti in cui tale ricerca è favorita e altri in cui è distratta. Le questioni culturali e poi politiche prevalenti in una società operano a questo livello, come aiuto o distrazione di massa. Fino a poco tempo fa sembrava che cultura e politica dovessero concentrarsi da un lato su questioni puramente economiche e dall’altro sui problemi dell’identità in senso individualistico, legati all’orientamento sessuale, la genitorialità garantita come diritto a tutti costi, la morte col timbro legale. È come se la politica, sempre più orientata nella direzione della biopolitica, si fosse spostata su questi temi, che riguardano la pura esistenza, la pura vita dell’individuo irrelato. Credo che questo sia totalitaristico: come se esistessero solo lo Stato e l’individuo che devono fare un contratto. E lo Stato, qualunque orientamento abbia, è più forte dell’individuo monade. E decide quali monadi siano utili e quali no. Non che questi temi non siano importanti, ma stavano occupando sempre più lo spazio del dibattito pubblico. Io lo considero negativamente, perché l’uomo è un essere comunitario, culturale, religioso, non un essere biologico individuale e basta. Forse questa sventura correggerà un individualismo sfrenato e malsano, che non è solo quello segnato dal consumismo ma anche dal “dirittismo” e dall’identitarismo fai da te.
A volte penso con avvilimento che alla fine di tutte le fedi e di tutte le ideologie all’uomo non resti che la sopravvivenza, la difesa della vita per la vita, al di là del senso, al di là delle domande sul significato di questa nostra esistenza.
È un pensiero avvilito, come dici giustamente. La verità della vita non consiste nell’affermazione del proprio corpo. Il famoso proverbio “finché c’è la salute c’è tutto” è una cavolata, e lo abbiamo visto ora. Perché l’uomo ha sempre dimostrato il meglio di sé quando, pur mettendo a repentaglio la propria salute, si è occupato di qualcosa di grande. I medici in queste settimane stanno rischiando per curare gli altri, e così dimostrano che c’è qualcosa in questa vita che vale di più della sopravvivenza del corpo. Se ognuno pensasse soltanto alla propria salute l’altro diventerebbe un rischio, un pericolo, un portatore di germi. Vogliamo questo?
Sarò novecentesco, ma credo ancora nella funzione sociale degli intellettuali. In cosa consiste questa funzione? Nel porre domande, nell’aprire questioni, nel sollecitare discussioni da un punto di vista critico e problematico, “aperto”, ma con generosità e senza calcoli, anzi, rischiando di essere fraintesi, di non essere capiti. Tu come vedi gli intellettuali in rapporto a questa situazione emergenziale che stiamo vivendo?
Non sono un grande osservatore del dibattito culturale italiano. Preferisco gli intelligenti ogni tanto rispetto a quelli che fanno sempre gli intellettuali. C’è un sacco di gente che dice cose interessanti, non bisogna essere per forza “intellettuali” da terza pagina di Repubblica o del Fatto Quotidiano per dire cose intelligenti. Giulio Sapelli, per esempio, dice cose interessanti. O Piero Vietti su Il Foglio. O quel che ha scritto qui il mio amico Giorgio Vittadini sulle condizioni della ripresa. Oppure trovo adeguata come chiave per leggere l’Italia di oggi la “perdita della letizia” di cui parla il mio amico poeta Gian Mario Villalta nel suo ultimo romanzo pubblicato da un altro amico, Antonio Riccardi, poeta e editore di Sem. Oppure l’editoriale di qualche giorno fa sul tema della chiusura delle chiese di Antonio Polito, che ho trovato molto intelligente. Giusto per fare dei nomi, ecco. Più che degli intellettuali di ruolo (roba un po’ insopportabile) mi fido degli intelligenti per caso, ovvero caso per caso.
Intanto la malattia e la morte sono entrate prepotentemente nel discorso pubblico. Anche se noto che la sfida della parola “morte” non venga accettata fino in fondo nella sua portata dirompente.
Vedo la censura della morte, ridotta a una cosa anestetizzata, a una cifra. Un amico l’altro giorno mi faceva notare che nei bollettini si parla dell’età media dei morti, che è un modo subliminale per dire “tanto muoiono solo i vecchietti”. Poi ogni tanto “sparano” il caso di una vittima più giovane. È un messaggio spaventoso, che gioco è? Quindi la morte da una parte è censurata, dall’altro è anestetizzata con cifre e con slogan retorici come “andrà tutto bene”. Ma di fronte alle bare dire “andrà tutto bene” è uno slogan da coglioni. Con gli slogan e con i numeri si prova a coprire il morso della morte, che però arriva feroce. È interessante osservare certi commentatori e certi giornalisti quando parlano della morte: è come se fossero in imbarazzo. È come se la morte mettesse in imbarazzo la nostra civiltà, fondata su un’idea banale di benessere.
Ho sempre considerato il “potere” della morte come il grande motore della fraternità. Ho sempre avuto questa idea della consapevolezza della morte e della fragilità umana come il grande motore della fraternità. Io ti abbraccio anzitutto perché so che sei in pericolo come me, hai paura come me, sei sperduto come me.
Non sono d’accordo. Non è la morte a muovere la fraternità. In questi giorni ho ricordato spesso una poesia famosa di Giuseppe Ungaretti, “Veglia”. Ho ricordato i versi più atroci di questa poesia, il corpo massacrato, la bocca digrignata, e le parole finali, gigantesche: “Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”. Però tra il compagno massacrato e l’attaccamento alla vita Ungaretti dice una cosa fondamentale: “ho scritto lettere piene d’amore”. Non è dunque la morte a creare la fraternità, ma l’amore. Occorre qualcos’altro per creare la fraternità, non basta la morte. Cuore di tenebra sappiamo come finisce, oppure Apocalypse now. L’orrore può spingere all’orrore, così come spinge all’orrore la stupidità di non pensare alla morte, il nichilismo gaio, come lo chiamava Augusto Del Noce. Non è vero che la morte spinge alla fraternità. La morte può spingere al nichilismo gaio o all’“andrà tutto bene” finché la malattia prende te e non me. No, ci vuole qualcos’altro per la fraternità. Ci vogliono le lettere scritte piene d’amore di Ungaretti.