“Non c’è modo migliore di togliere all’uomo la sua personalità, la sua forza di uomo, di quello che preserva apparentemente la libertà della personalità e il diritto all’individualità. Se il processo del condizionamento ha luogo per ognuno separatamente, nella casa del singolo, in solitudine, tanto migliore sarà la riuscita. E se si presenta come divertimento, se non fa sapere alla vittima che pretende da lei dei sacrifici, se le lascia l’illusione della vita privata, o almeno del suo ambiente privato, il trattamento è assolutamente discreto”.
Queste affermazioni si trovano nel volume di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, Supersocietà: Ha ancora senso scommettere sulla libertà? (Il Mulino, 2023). Ma perché può accadere questo nella società del tecno-capitalismo? “Perché l’impulso verso l’individualizzazione è solo l’altra faccia della medaglia di una spinta verso la totalizzazione, cioè verso un’organizzazione sociale sempre più integrata, in grado di garantire un aumento di possibilità […]. Individualizzazione e totalizzazione costituiscono la soluzione polarizzata verso cui tende la modernità liquida, dove l’apparente aumento delle possibilità individuali si rovescia in un nuovo ordine sociale che cerca di colonizzare ogni ambito dell’esistenza e ogni dimensione del sé”.
In altri termini: la tesi di fondo del volume è che l’individualismo di oggi non è più il vecchio individualismo liberale, animato da una identità forte e da un’altrettanto forte carica etica, ma è radicalmente condizionato dal tecno-capitalismo. Questo tipo d’individuo è molto funzionale al sistema: anzi il capolavoro del sistema è quello di farci credere che non abbiamo bisogno di nessuno. Il desiderio viene inglobato dal meccanismo tecno-economico, facendolo divenire il suo motore interno. E mentre i bisogni sono soddisfabili, i desideri non lo sono. Si propone il consumo come la strada per colmare il vuoto. Il desiderio d’infinito diviene l’infinito desiderio che il capitalismo orienta verso la continua innovazione tecnologica e l’espansione delle possibilità.
Più in generale, secondo gli autori, con la sua straordinaria capacità di aumentare le possibilità di vita di miliardi di persone, il capitalismo è un processo che solleva enormi questioni di ecologia sociale e ambientale. È proprio grazie alla crescita realizzata negli ultimi due secoli che ora ci troviamo a dover gestire i suoi enormi effetti collaterali. La supersocietà nasce dall’eredità della modernità liquida, dai suoi successi e fallimenti: l’interconnessione sistemica, l’implosione del desiderio dopo il Sessantotto, i fenomeni entropici e antropici che innescano shock ed emergenze.
Per di più “avere immaginato l’eliminazione di ogni confine, con la negazione della pluralità delle storie culturali, si rivela così per quello che è: un’illusione pericolosa che finisce per stimolare, per reazione, l’affermazione violenta delle identità. Culturali e territoriali. Per questa via, lo ‘scontro di civiltà’ – di cui negli anni 90 aveva scritto Samuel Huntington – diventa un esito”. È accaduto con la modernità liquida che, scommettendo in maniera unilaterale sulla liberazione dell’io, sulla ricerca dell’autenticità individuale, nel breve volgere di qualche decennio è a rischio di rovesciarsi nel suo contrario: una totalizzazione fagocitante.
Ma che cosa fare in positivo per rispondere a questa problematica? Secondo gli autori, che riprendono una loro tesi centrale già esposta in altri volumi, “quello che diventa sempre più urgente è riuscire a fare un passo oltre il paradigma della produzione, nella direzione di quello della generazione”. Termine che, ben al di là della sua accezione biologica, va letto in senso simbolico come nuova tappa di una fase evolutiva che la modernità può oggi cominciare a realizzare.
Consumo e produzione mancano, infatti, il punto che solo la generazione è in grado di cogliere: e cioè che la nostra attitudine a mettere al mondo un valore si trova a un certo punto a doversi confrontare con la questione della libertà altrui. È questo lo snodo attorno a cui la vita sociale va ripensata e che diventa, letteralmente, questione di vita o di morte. Si richiamano le parole di Romano Guardini, “vita è fecondità. E tanto più è viva la vita, quanto più grande è la sua forza di dare ciò che ancora non esiste”.
In fondo si tratta del tema del legame sociale, del rischio dell’educazione che, oltre a quello della generazione, oggi s’impone drammaticamente in Occidente. Ripensare il rapporto individuo-comunità – cioè la dimensione relazionale della persona, entro cui si può attuare un lavoro di coeducazione – è il tema fondamentale. Si tratta di riconoscere con simpatia dove questo processo è già in atto. Ancora una volta si tratta di un problema di attenzione in un momento storico in cui questa è monopolizzata dalle continue sollecitazioni della tecnologia che informa la supersocietà. Non siamo angeli disincarnati. Ma la nostra razionalità e il nostro desiderio non sono neppure riducibili ai fattori che pure li condizionano. S’impone, soprattutto, la necessità di un’educazione dei giovanissimi che li protegga dagli effetti nocivi della rete e per questo occorre ricuperare i rapporti fra le persone “in carne e ossa”.
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