Nel secondo libro delle Odi di Orazio, la 16esima si apre con uno scenario burrascoso:
Sorpresi in pieno Egeo, quando la nube
cela nera la luna e astri di certezza
non brillano nel cielo ai marinai,
ciò che preghiamo dagli dei è pace.
I Traci furibondi nella guerra
i Medi dalla nobile faretra
pregano pace: non la comprano né gemme, né porpora, né oro.
I tesori non sgombrano i pensieri dolorosi
che insorgono nell’anima,
e angosce che volano sotto soffitti sfarzosi.
Il poeta tratteggia con il minimo delle parole una tempesta improvvisa che toglie agli uomini ogni illusione di calmarla con i beni più preziosi. Resi impotenti pregano sì, ma l’angoscia domina il loro cuore. Continua Orazio:
Nel poco è il bene, quando timori e voglie inconfessate
on ti tolgono un sonno lieve.
Siamo forti e caduchi. Perché tante mire?
Lontani dalla patria siamo esuli a noi stessi.
L’angoscia è più veloce del cervo, più veloce dello scirocco che trascina i nembi.
Il cuore lieto ora odia il pensiero
dell’oltre. Stemperi l’amaro con un sorriso lento.
In nulla esiste piena felicità.
In una continua alternanza tra la metafora della tempesta e il cammino dell’uomo comune, si fa palese nella seconda parte della lirica il pensiero del poeta, espresso in molta della sua produzione: l’antidoto all’angoscia è saper trovare la proporzione tra le pretese dell’animo e i limiti imposti dalla natura, sulla quale incombe la morte.
Per perseguire questa saggezza, per nulla scontata, ma perseguita nella fatica, occorre tornare al proprio posto, la patria o, altrove, l’angolo appartato in cui ritrovare se stessi.