Che uno dice: in Europa, in Parlamento avranno delle belle gatte da pelare in questi giorni di incertezza sui vaccini, di pandemia verso il picco, di disastro dell’economia e del lavoro, della tragedia di fallimenti umani e sociali e degli altri sistemi produttivi (cinese, russo, americano, perfino indiano) che ci sorpassano da tutte le parti. Poveretti, dovranno concentrare le forze, dedicarsi tutti allo scopo, unirsi e combattere senza distrazioni. Poi si viene a sapere che una sezione di questi delegati europei, dai noi eletti e stipendiati, sta facendo tutt’altro; che precisamente sta cambiando il vocabolario, in modo da ripulirlo da termini ed espressioni che possano puzzare di offesa e razzismo. Nobile scopo, forse non urgentissimo, ma tant’è. In particolare, stiamo parlando dell’unità “Uguaglianza, inclusione e diversità” del Parlamento stesso e del nuovo glossario del linguaggio definito “sensibile” ad uso (per ora) riservato ai documenti interni, rivolto cioè al personale della stessa istituzione europea, anche se è facile prevederne la calata sulle cancellerie nazionali e, in un futuro vicinissimo, sugli organi territoriali, come sempre.



Il principio è buono, naturalmente. Si tratta di elaborare un linguaggio “inclusivo” per “comunicare correttamente su questioni riguardanti la disabilità, le persone Lgbti+, la razza, l’etnia e la religione”. Giusto. Così molto presto funzionari, assistenti, portaborse, portavoce e politici dovranno adottare un vero e proprio vocabolario che eviti loro di passare per non–inclusivi, cioè per discriminatori se non razzisti. Non tragga in inganno la gamma delle categorie protette da questa neolingua di orwelliano sentore: particolare attenzione si dà, naturalmente, alla questione a tema gender. Sono citate anche le religioni, certo, ma nessuna menzione al loro rispetto linguistico, alla lotta alla bestemmia, ad esempio.



Grande dispiego invece di correzioni e puntualizzazioni che riguardano i termini relativi alla costellazione Lgbt (e altre lettere, aggiungere secondo necessità). Vietato parlare di gay, omosessuali e lesbiche, a cui riferirsi invece come “persone” gay, “persone” omosessuali, “persone” lesbiche. Speriamo, a questo punto, che si possa dire anche “persone” eterosessuali. Cancellato il “matrimonio gay”, sostituito dal “matrimonio egualitario”, ma anche in questo caso non si capisce perché il matrimonio tra persone di genere diverso (ma si può ancora dire “genere diverso”? Forse sto rischiando l’incriminazione…) non dovrebbe esser egualitario. Sbagliato anche dire “diritti dei gay e degli omosessuali”; rimpiazzarlo con “trattamento equo, paritario”.



Neppure i fondamentali si salvano, così usare “padre” e “madre” invece di “genitore” è già razzismo, mentre con un colpo di spugna si cancella la biologia, e il “sesso biologico” diventa “sesso assegnato alla nascita”. D’altronde il “cambio di sesso” si trasforma in una “transizione di genere”. Quand’ero piccolo era celebre quella che si praticava a Casablanca, ma ora forse è più agile farlo a Bruxelles.

Il fondo della questione rimane infine lo stesso: siamo noi popolo, massa, folla, a ritenere che si possano usare parole qualsiasi e che la memoria labile del passato non sia poi un gran danno, di fronte allo spettacolo del presente e alle promesse del futuro. Chi conosce invece, ai livelli alti, come funzionano le cose, sa benissimo che attraverso le parole passa l’ordine del mondo, l’indirizzo dei pensieri, la formazione della mentalità. Distruggere le statue dei personaggi storici non è solo un gesto fanatico e/o folcloristico, così come cambiare le parole. La posta in gioco è la ricostruzione delle menti, dei cuori e persino dei corpi. Se usi certe parole, finirai per pensare in un certo modo. Il motivo di partenza è sempre, come si diceva, buono, umanitario: l’inclusione, il rispetto delle minoranze, ecc. Ma anche il punto d’arrivo è sempre lo stesso: farci pensare come qualcun altro vuole che pensiamo.

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