E’ forse azzardato accostare brani di due autori così lontani come Oscar Wilde e Agostino di Ippona. D’altra parte la suggestione di due percorsi tesi alla verità di sé è tale da far rischiare di leggerli, per trovare, forse, la radice che li lega.

Innanzitutto una pagina tratta da De profundis di Oscar Wilde. Scritto dal carcere in cui dal 1895 era prigioniero per due anni a causa della sua omosessualità, lunga lettera indirizzata all’amico Bosie, ebbe una tormentata vicenda editoriale e solo nel 1962 uscì la versione definitiva. In essa sono intrecciate autobiografia e critica letteraria. Il titolo stesso del libro rimanda all’esperienza personale e insieme a uno dei salmi più conosciuti e intensi dell’intero salterio.



“Sono in carcere da due anni, quasi. Da principio una selvaggia disperazione cominciò ad impossessarsi di me; mi abbandonavo a una pena tale ch’era disprezzabile anche a vedersi, a un’ira terribile ed impotente, all’angoscia e all’indignazione, alla tortura che mi strappava i più acuti singhiozzi, a una miseria che non aveva nessuna voce per esprimersi, a un dolore muto. Sono passato attraverso tutte le forme possibili della sofferenza. Ma quando, talvolta, io mi rallegro all’idea che i miei patimenti sarebbero interminabili, non potevo, però, sopportare ch’essi fossero privi di significato. Ora, io trovo riposta in un oscuro angolo della mia natura qualcosa che mi dice: nulla c’è al mondo che sia vuoto di senso ed il soffrire meno di qualunque altra cosa. Questo quid, nascosto nel più profondo del mio ‘io’, come un tesoro in un campo, è l’umiltà. È l’ultima cosa che mi resta, e la migliore; è l’estrema scoperta alla quale io sono arrivato, è il punto di partenza di tutto uno sviluppo nuovo. È una verità che si è formata nel mio intimo essere e così pure io so ch’essa è venuta in un momento favorevole. Se alcuno me ne avesse parlato, l’avrei respinta; ma siccome l’ho trovata io stesso, ci tengo a serbarla. Bisogna ch’io la conservi! È l’unica cosa che ha in sé i germi della vita, di una nuova esistenza, una Vita Nuova per me. Tra tutte le cose, essa è la più strana; non si può acquistarla che a patto di rinunciare a tutto ciò che si possiede. E, solo quando si è perso tutto, ci si accorge di possederla”.



L’autore cerca il significato del suo patire, non si accontenta di subirlo in attesa che passi e scopre nell’intimo di sé il tesoro dell’umiltà, terra buona da cui nasce la volontà di custodirla, in modo che diventi madre di una nuova vita.

Agostino fu prigioniero per molto più di due anni delle proprie passioni, dell’ambizione, dell’ansia di giungere a una verità convincente attraverso le opere dei filosofi che aveva studiato. Racconta il suo vagare nei primi otto libri delle Confessioni; anche lui ha un interlocutore, quel Dio così vicino a lui tanto più quanto lui se ne allontanava.



“Mio Signore, io sono servo tuo, servo tuo e figlio della tua ancella. Hai spezzato le mie catene: ti offrirò un sacrificio di lode. Canterò le tue lodi col cuore e con la lingua, e grideranno tutte le mie ossa: chi è come te, Signore? Parlino, e tu rispondi e dí a quest’anima: la tua salvezza sono io. Io chi? Già, quale io? Cos’era senza male in me, nelle mie azioni, o se non nelle azioni nei discorsi, o se non nei discorsi nel volere? No Signore, eri tu, tua la bontà accorata e tua la destra che saggiava il mare della mia morte e raschiava dal fondo del mio cuore, dalle sue buie voragini, il marcio. Eri tu: nel no integrale a quello che volevo, e nel sì a quello che volevi tu. Ma dov’era per tutto quel tempo, tutti quegli anni, il mio libero arbitrio? E da che misteriose profondità fu evocato in quell’attimo, perché piegassi il collo alla carezza del tuo giogo e le spalle alla tua soma leggera, Cristo Gesù, mio soccorso e mia salvezza? Strano com’era dolce, all’improvviso, fare a meno di quelle mie fatue dolcezze, e come la paura di perderle ormai era gioia d’averle lasciate. Perché eri tu a cacciarle via da me, tu vera e somma dolcezza: le cacciavi ed entravi al loro posto, più intenso di ogni piacere, ma non per la carne e il sangue; più chiaro d’ogni luce e più riposto di ogni segreto, apice d’ogni cosa sublime, ma non per chi fa se stesso sublime. Avevo il cuore libero ormai dai morsi ansiosi dell’ambizione e dell’avidità e dalla rogna assillante delle voglie: e ti parlavo beato, mia chiarità, mio tesoro e salvezza, mio Signore e mio Dio”.

All’inizio del nono libro Agostino ripercorre i passi della sua lunga ricerca e vi trova, nel profondo, la presenza di Dio, la sua azione segreta e potente nell’intimo del suo cuore. La sua umiltà consiste nella scoperta di essere figlio, la sua libertà nel piegarsi alla carezza del giogo di Gesù Cristo, la sua gioia nel vedere cacciate le vane dolcezze. In lui la fede è un fatto di conoscenza, una amorosa conoscenza che diventa lode.