A prima vista stupisce che a dieci anni dalla sua morte padre Emmanuel Braghini (1928-2012) continui a far parlare di sé, visto che non è stato un intellettuale e non ha avuto ruoli ed incarichi particolarmente rilevanti nella Chiesa. Per tutti quelli che l’hanno conosciuto è stato fondamentalmente il grande amico e confessore di don Giussani.



È da poco uscito, infatti, un nuovo libro di Silvana Rapposelli, che pone al centro la sua figura con una angolazione tutta particolare: Padre Emmanuel. Fede e liturgia (Mimep-Docete 2023).

Questo libro per certi versi completa e sviluppa la presentazione del suo “ritratto” di “cappuccino intenso e creativo” (mons. Scola) apparso già nel 2017, sempre a cura di Silvana Rapposelli (Padre Emmanuel, Itaca) dove predominava il taglio biografico e di raccolta di testimonianze di chi l’aveva conosciuto.



Tuttavia questo testo è molto diverso perché cerca di cogliere il senso del vissuto dell’esperienza cristiana del Padre (come era familiarmente chiamato da chi lo seguiva).

Il libro é infatti una raccolta  di omelie, lezioni e catechesi raggruppate secondo il taglio specifico dell’opera, e presenta i pochi testi che il Padre ha lasciato (con un certo orgoglio proclamava che lui non era uomo di “discorsi”) mettendo al centro l’elemento caratteristico della sua esperienza e testimonianza: la vita liturgica.

Come dice nella densa prefazione Danilo Zardin, “guardando a come padre Emmanuel si muoveva con i tanti giovani conosciuti nel mondo delle scuole e poi all’università … si coglie immediatamente che la capacità di aprire squarci affascinanti di rinvio all’assoluto di Dio passava in modo risoluto attraverso il gesto della preghiera liturgica”.



Infatti nei tanti luoghi illuminati dalla sua presenza, dal Palazzo Kramer al villaggio vacanze di Edolo, dall’Università Cattolica agli ambiti di Comunione e Liberazione, “tutti erano invitati a partecipare alla preghiera comune fino al suo vertice che è la celebrazione eucaristica, veicolo della paziente forza trasformatrice del sacramento”.

Per chi l’ha conosciuto, e chi scrive è tra questi, il libro “vibra” tutto della personalità del Padre e comunica bene una serie di modalità tipiche del suo atteggiamento educativo e della sua predicazione, ma è prezioso anche perché permette di sottolineare alcune “linee guida” della sua proposta pedagogica.

In primo luogo c’è la liturgia, che ritmava la sua vita e irrorava senza soluzione di continuità la vita quotidiana sua e di chi lo incontrava, proprio  perché era “il luogo privilegiato della sua familiarità con la Grazia” (p. 152).

Come evidenzia una testimonianza, dal modo stesso con cui celebrava Messa “diventava usuale per noi giovani vivere la Messa come paradigma, intelligenza, impeto, capacità di comprendere tutto, perché tutto avesse significato. Infatti, se nell’abbraccio della Grazia non si mette dentro tutto l’umano – amava dire –, si separa Cristo dall’io e dal mondo, perché la conversione del cuore, che è l’avvenimento di Cristo presente, genera l’unità della persona” (p. 153).

Così l’attenzione e l’impegno per la celebrazione del sacramento della Riconciliazione ha accompagnato i momenti salienti della sua vita, dall’incontro con don Giussani nel ’54 alla conversione e all’accompagnamento spirituale di tanti, per cui faceva vivere quel momento come l’ambito privilegiato dell’incontro col Mistero della misericordia divina che si fa carne nella vita quotidiana.

Esemplare è quanto traspare dalle due omelie riprodotte, in cui ripercorre il suo rapporto con una grande amica, che si è convertita dopo un serrato dialogo e una dura lotta interiore: quando infine “insieme fummo toccati dall’invisibile” e lei gli chiese cosa doveva fare per incontrare Gesù, lui molto semplicemente rispose: “bisogna confessarsi” e lei … “si confessò. Ma quanta Grazia in quell’avvenimento, in quella circostanza!” (p. 67).

Ecco, la Messa e la Riconciliazione erano per lui i pilastri del cammino di fede, perché “la liturgia è il libro dei poveri di spirito, di coloro che da essa si lasciano condurre alla conversione del cuore” (p. 152).

Padre Emmanuel era poi appassionato della costruzione del soggetto cristiano e non in una forma spiritualista, come era diffuso nella cristianità dell’epoca: uno dei capitoli più interessanti presenta infatti l’esperienza cristiana ed ecclesiale condotta in Palazzo Kramer nei primi anni settanta, l’ambito annesso al convento dei cappuccini di viale Piave a Milano, a lui affidato per realizzare attività culturali e sociali.

In un’ampia relazione l’esperienza di Kramer viene descritta come “un’occasione della Provvidenza per costruire una comunità che non rimanesse dopolavoristica o domenicale e che lentamente si incarnasse nella vita quotidiana fino a rinnovarne ogni aspetto” (p. 126).

Combinando sapientemente elementi tratti dal carisma francescano e dal metodo appreso da don Giussani, il Padre mostra come si costruisce un soggetto cristiano (allora si diceva un “gruppo di comunione”), capace di non censurare il proprio volto di fronte alle ideologie dell’epoca, e radicato nella “meditazione della Parola, la catechesi settimanale sui temi della Cei, l’Eucarestia quotidiana, l’orario della giornata strutturato secondo la liturgia delle Ore, il pranzo comune a mezzogiorno e una convivenza dettata dalla carità” (p. 127).

La prima opera fu quindi l’educazione a una mentalità globale di Chiesa, a far sì “che nessun aspetto particolare sfugga al criterio della fede, educarsi a recuperare ogni oggetto ‘riassumendolo’ in un servizio (come per es. un barattolo del caffè per farne un portamatite), tutto ciò educa e riunifica l’esistenza”. Significativo è il fatto che la comunità di Kramer non fiorì come luogo di “rifugio” rispetto alle difficoltà della vita, come alibi per non partecipare al tentativo missionario nelle scuole e nelle fabbriche.

Da qui il rilievo metodologico che l’esperienza della Comunità è la vocazione primaria del cristiano, perché ognuno è “chiamato a fare della propria vita un servizio all’edificazione della Chiesa, nella sequela di Cristo”, perché solo da “luoghi di chiesa vivi … sorge immediatamente il miracolo della vocazione fondamentale e di quelle specifiche” (di fatto non furono poche le vocazioni al sacerdozio e alla verginità consacrata scaturite da quel tipo di esperienza comunitaria, che il Padre replicò in ogni ambito da lui animato, come documentano le testimonianze raccolte nella seconda parte del testo).

Il Padre era consapevole di vivere tutto sotto gli occhi di Dio e perciò insegnava a vivere ogni istante con intensità e attenzione ai particolari, perché, come amava dire, “è un’educazione a vivere il tutto nel frammento che abilita a cose grandi”.

Come ci ricorda un’altra testimonianza “rimane nella mente e nel cuore la serietà del Padre per tutti gli aspetti del vivere, la cura della preghiera, dei canti, della liturgia e l’attenzione ai luoghi dove si vive affinché fossero puliti, accoglienti, belli! … belli per rendere gloria a Dio” (p. 159).

In ogni omelia, meditazione e lezione riprodotta emergono esemplificazioni che mostrano come il suo metodo di “assunzione creativa” di ogni particolare della vita consisteva nel tener sempre unite due parole fondamentali del fatto cristiano, comunione e missione:  “proprio perché ogni presenza di Comunione è immediatamente missionaria, ogni gesto (come il pranzo comune o la riparazione dei muri) era proposto e vissuto come gesto missionario” (p. 129).

Il libro fa emergere anche la sua  costante attenzione a far riflettere sul senso dell’esperienza vissuta, e alcune tra le pagine più intense mostrano che era vivo in lui l’impegno a “vaccinare” i giovani dagli schematismi. Come ricorda un’altra sintetica testimonianza “lo schema era – e ce lo ricordava spesso – il prevalere del discorso sulla vita o, per usare un termine a lui caro, sull’esperienza” (p. 160).

Con una grande capacità di legare sempre affetto e riflessione, quindi più col suo atteggiamento che con le parole ha insegnato a tanti a liberarsi con leggerezza dagli schematismi, di modo che l’esperienza, e con essa la persona, non venisse subordinata alla “legge” o, peggio ancora, ai discorsi appresi e ripetuti.

Non sopportava la rigidità, perché sapeva che l’abbraccio di Dio è per ciascuno di noi così come si è e perché era consapevole che “le braccia che si aprivano non erano le sue, ma quelle di Dio attraverso di lui”.

Si comprende così la sua insistenza nel raccomandare a tutti, al termine di un colloquio o di una confessione: “resisti nella fede”, che non era un invito ad uno sforzo moralistico, ma, come ricorda un suo discepolo divenuto sacerdote, significa “rivivere attraverso le circostanze che il Signore ti dona l’incontro che ti ha salvato, in un mondo che a spallate tenta di togliere di mezzo quello che sei. Resisti nella fede, nel riconoscimento cioè che un Altro ti fa, ti sta facendo” (p. 180-1).

In un periodo in cui ogni carisma è chiamato a “tornare lì, a quella prima Galilea che ognuno di noi ha vissuto”, questo libro è veramente prezioso perché ci permette di introdurci alla profondità dell’esperienza di un umile e grande testimone della “prima Galilea” di Cl.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI