Come si diceva una volta, sono tempi interessanti. Sono tempi in cui abbiamo senatori (a vita, ma anche aviti) che, dieci anni dopo il loro momento di grazia mediatica, ci spiegano in diretta tv, con il rispettoso assenso dei giornalisti presenti, che l’informazione dovrebbe essere meno “democratica”, qualunque cosa voglia dire. In cui ci dicono che non siamo in guerra, però è un po’ come se fossimo in guerra. In cui ci dicono, balbettanti – ma è un consapevole stile comunicativo, pensato per produrre un effetto costruito sull’età, che aumenta la credibilità – che siccome abbiamo rinunciato, in nome della quasi-guerra, a qualche libertà, possiamo rinunciare ad altre, secondo loro meno importanti. Ed avere così delle quasi-libertà in nome della quasi-guerra. 



Dal che si deduce non solo che di questi tempi la dissonanza cognitiva è la cifra di ogni comunicazione pubblica che si rispetti – e se no a che serve la credibilità, che cresce con l’età? – ma soprattutto che pensare e parlare è meno importante dell’andare per ristoranti ed aperitivi, che sono importanti perché fanno crescere il Pil. Come se per andare per ristoranti ed aperitivi, nel Nuovo Mondo del Senatore Avito, non richiedesse una qualche forma di pensiero (dove vado stasera?) e il parlare (con chi parlo mentre mangio?). Tralasciamo. 



Sono tempi in cui un presidente del Consiglio, convinto dell’unicità delle sue doti di spericolato funambolo, già sperimentate in sede europea, sta scoprendo giorno per giorno, sulla sua pelle, il senso dell’antica e tragica massima per cui “Governare gli italiani non è impossibile. È inutile”. E continua a fare il presidente del Consiglio dimenticando che i lanciatori di giavellotto raramente sono buoni maratoneti. Per cui, mal consigliato, continua lanciare giavellotti in Gazzetta Ufficiale, quando invece dovrebbe attrezzarsi per la maratona. Del resto, come ha scritto bene qualcuno che da sempre sa leggere i tempi che vive, “O Draghi o il Caos”. Che adesso è diventato anche il titolo di un libro (G. Sapelli – L. Festa, O Draghi o il Caos. La grande disgregazione: l’Italia ha una via d’uscita? 2021, Guerini, Milano 2021).



Ecco, in questi tempi divertenti e interessanti, in cui abbiamo ministri sansimonisti (inconsapevoli), che dichiarano in pubblico che, sulla base dei loro calcoli, l’Umanità sopra i 3 miliardi di corpi è inutile, e consuma energia; e in cui ne abbiamo altri che si esercitano su un palcoscenico a ridere di sofferenza psichica (altrui), pensando di essere personaggi di Shakespeare (salvo accendere il televisore e scoprire di essere personaggi di Crozza), ci sono ancora dei libri da leggere e da rileggere. 

Il primo è un libro antico, di un poligrafo scozzese del’800, Charles Mackay, che sicuramente lo stesso Senatore Avito riconoscerà dal titolo, avendolo frequentato a lungo, dall’alto della sua cultura economico-quantitativa. Si intitola Memoirs of Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds. È stato pubblicato a Londra per la prima volta nel 1841, e ristampato in diverse occasioni nella Londra vittoriana. È  disponibilissimo in rete per un download legittimo, essendone scaduti i diritti da un pezzo. Si tratta di un libro interessante, scritto in un inglese ottocentesco, ma elegante e scorrevole. E si sa che l’inglese, basta che non sia quello robotizzato dei poveri funzionari di Bruxelles, è una lingua colta. Se in Italia, soprattutto dopo la Brexit, si crede il contrario, è solo perché qualcosa dei discorsi di Mario Appelius, e della fobia antibritannica dei tempi delle sanzioni, è resistito nel tempo. E da allora si è fatto luogo comune tra i ceti semicolti della Penisola. Ma si sa che Mario è un nome molto comune in Italia.

Insomma, non solo Dio non ha stramaledetto gli inglesi, come qualche Mario del passato aveva richiesto, ma in Inghilterra, patria del common sense, ancora oggi resiste una certa propensione alla lettura su carta, anche fra i ceti che qualcuno potrebbe definire “popolari”. E quindi tra i meno legittimati ad esercitare quel diritto di voto che dovrebbe dipendere dall’informazione (troppo democratica).   

Il libro di quello sconosciuto – un tempo celebre – poligrafo tratta, con un certo stupore, di un fenomeno ricorrente. E cioè dell’attitudine dell’umanità ad inseguire, all’improvviso e senza ragione apparente, forme irrazionali di credenza collettiva. Insomma, a rimbecillirsi tutta assieme, e tutto d’un tratto.

Non è un libro sarcastico, anzi. È il racconto, molto garbato, di alcune epidemie psichiche del passato costruite, oggi come ieri, su paura, soldi, e umanità che si crede furba e superiore. Dalla bolla dei tulipani del ’600 (Tulipomania), alla truffa della Compagnia del Mississippi del ’700 (Mississippi Scheme); dalla Caccia alle streghe (Witchcraft) del ’600, agli Alchimisti; dai Rosacrociani al Magnetismo collettivo. Che è poi quello di Mario e il Mago di Thomas Mann. 

È un peccato che Mackay non ci sia più, oggi, per aggiungere un capitolo al suo vecchio libro. Mackay era figlio di quell’ambiente culturale che veniva dall’Illuminismo scozzese di fine ’700, molto diverso da quello sanguinario francese, fatto di ghigliottine e massacri in piazza che conosciamo noi. E che avrebbe dato al Nuovo Mondo Adam Smith, David Hume, James Watt, Robert Adam e Robert Burns. Per questo il Nuovo Mondo è così diverso dal Vecchio. E per questo non si capiscono mai troppo. 

Ma non avrebbe senso rievocarlo oggi, non fosse, Charles Mackay, passato alla storia per uno splendido aforisma, che di questi tempi merita di essere riscoperto. Nel suo libro Delle Ossessioni popolari e delle Pazzie collettive spicca una frase: “Gli uomini, è stato ben detto, pensano in branco; si sa che impazziscono in branco, mentre recuperano i sensi solo lentamente, uno per uno”. E che in inglese herd voglia dire tanto branco (di uomini) come gregge (di pecore) dovrebbe insegnarci molto sulla situazione attuale. E su chi guida greggi e branchi.

L’altro libro da leggere è il libro di un collega costituzionalista, Antonio Cantaro (Postpandemia. Pensieri metagiuridici, Giappichelli, Torino 2021) che è al tempo stesso la cronaca personale di un anno di sabbatico durante la pandemia del 2020, e una specie di Dissipatio H.G. del costituzionalismo italiano. Cantaro è uno studioso interessante, a lungo direttore del vecchio CRS (Centro per la Riforma dello Stato), di cultura originalmente marxista, ma mai piegato alla logica di gregge che attraversa ogni cultura collettiva. Il che ne ha fatto nel tempo una specie di pecora nera (in senso positivo), per restare alla metafora del Gregge di Charles Mackay. 

Quello di Cantaro è un libro da leggere perché dimostra che in Italia c’è ancora un pensiero sulla Costituzione che non ha bisogno di rinsavire. Che guarda in modo disincantato alle trasformazioni in corso dell’ordinamento italiano e del suo sistema di partiti; fa i conti con il rapporto tra politica e tecnica; ragiona sull’impatto delle nuove cybertecnologie sulle libertà occidentali e, in generale, sulla condizione dell’individuo nel Nuovo Mondo del dopo-Pandemia. 

Qual è la frase chiave del libro? Questa: “La storia del Covid-19 non è, insomma, così semplice come viene raccontata dalla scienza che ha ‘guidato’ i governi. Una tecnocrazia trainata principalmente da esperti costruttori di modelli di epidemie e da specialisti in malattie infettive i quali tendono ad inquadrare l’emergenza sanitaria in termini di peste secolare (p. 159). Siamo invece di fronte – ci dice Cantaro, riprendendo le idee in un antropologo americano, Merrill Singer – ad una sindemia. Ossia ad un fenomeno sociale e politico che genera epidemie. Che non può essere gestito soltanto da un approccio di cura individuale o di vaccinazione/terapia preventiva, come è stato impostato finora. Men che meno da una terapia genica, come sembra essere il futuro della medicina. “Le malattie complesse (come le sindromi metaboliche, cronico-degenerative, immuno-infiammatorie, tumorali) non sono la conseguenza di errori del Dna e non possono essere facilmente diagnosticate e curate mediante la terapia genica. Le loro cause sono, in primo luogo, ambientali: l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, le catene alimentari, lo stress. Lo stesso errato paradigma miracolistico del genoma è stato sin qui applicato per il Covid-19, trattando il ‘nuovo virus’ come un ‘incidente biologico’ da combattere prevalentemente, se non esclusivamente, tramite presidi farmacologici (farmaci antivirali, anticorpi monoclonali, vaccini). E ciò a causa, in primo luogo, degli enormi interessi economici delle ‘Big Pharma’ che possono contare su un diffuso approccio riduzionista che determina tutte le scelte nel campo della ricerca, della prassi biomedica, della politica sanitaria”.

In ultima analisi, ci dice Cantaro, quello della pandemia/sindemia non è un problema medico-sanitario, quanto un problema politico. Perché la pandemia/sindemia che attraversiamo è solo il frutto della cattiva politica dei decenni passati. 

Certo, può darsi che questa tesi sia un corollario della vecchia tesi marxiana per cui ogni problema è sempre un problema politico. Da qui l’idea di riscoprire un ‘costituzionalismo dei governati’. Ma è un pensiero che, per la sua novità, in questo momento merita attenzione. E al quale ci sarebbe solo da aggiungere che la pandemia è il classico esempio di cattiva politica destinata a generarne di peggiori. Come ci accorgeremo man mano che – secondo la massima di Mackay – inizieremo a “riprendere i sensi” e a guardarci attorno.

Come inevitabilmente accadrà. È solo questione di tempo. 

Perché Mackay, da buon vittoriano, fedele alla Regina, non si chiedeva se dalla pazzia collettiva fossero immuni i Pastori del Gregge. Questa, purtroppo, è una forma di immunità che non si raggiunge con un vaccino. E si sa che per gli antichi “Coloro che gli dei vogliono perdere, prima li accecano”. È questa, in fondo, la ragione per cui non bisognerebbe mai disprezzare gli antichi. Neanche da parte dei sansimonisti inconsapevoli.

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