Il termine mistica oggi è spesso oggetto di fraintendimento tra i più. Con esso, infatti, si allude di solito a fenomeni paranormali, a visioni/audizioni ultraterrene o a esperienze religiose ineffabili di carattere esoterico. Nulla di più lontano dall’autentico ambito mistico che è stato antropologico di totale apertura/consapevolezza nei confronti di quel mistero per eccellenza che è l’esistenza: espressione questa che non può venir ridotta alla sola vita organica, ma alla realtà globale dell’essere.
Se è vero che il vocabolo in questione deriva dal verbo greco myein ‒ che significa chiudere la bocca e gli occhi; in particolare di fronte al mysterion del sacro/divino ‒ e allude al fatto che il mistico tace in quanto ritiene che le parole (in ispecie quelle del discorso/pensiero argomentativo di tipo scientifico–razionale) possano dir ben poco intorno a tale dimensione, e sa pure che “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18); perciò preferisce il silenzio, il raccoglimento in se stesso e la contemplazione.
Pertanto Raimon Panikkar (1918-2010) ‒ nell’introduzione al primo volume della sua Opera omnia, intitolato Mistica pienezza di vita (Jaca Book) ‒ puntualizza opportunamente che “la mistica autentica non è una riflessione sull’Essere”, non essendo teoria bensì prassi, benché del tutto peculiare. E, paradossalmente ma non troppo, è vera anche l’osservazione seguente: “La mistica è Silenzio e il mistico è chi lo fa parlare”.
Non sembri allora una contraddizione la presenza insieme del tacere e del dire fra i grandi maestri mistici. Perché allora essi parlano intorno al divino se il rimanersene zitti potrebbe risultare la scelta migliore? La risposta è semplice: loro, in effetti, preferirebbero tacere. Se parlano tuttavia, lo fanno a beneficio altrui. La loro è una vocazione e un’attenzione pedagogica. Per questo non si stancano di utilizzare un linguaggio che potremmo chiamare poetico e arazionale (non irrazionale o insensato), fatto di parole allusive, evocative, di immagini e simboli in grado di accennare, in qualche misura almeno, all’indicibilità dell’esperienza spirituale.
È comunque assai opportuno definire che cosa la mistica non sia, utilizzando un metodo apofatico. Dice bene il grande pensatore spagnolo, essa “non è la conoscenza analitica, né tanto meno quella sintetica; non è una conoscenza meramente intellettuale, né soltanto quella delle ‘ragioni del cuore’ (Pascal): è la comunione con la realtà che coinvolge tutti i nostri sensi, l’intelletto, l’anima e le forze”. E ancora: “la visione mistica non è né parte isolata di una esperienza, né una mera esperienza individuale. La visione include tanto l’Altro (come alter) quanto me stesso, tanto l’umanità e la terra quanto il divino. È l’esperienza cosmoteandrica, il resto sono riduzionismi. L’esperienza mistica è l’esperienza (umana) completa”. Condivisibile è pure la considerazione che lo specifico della mistica consiste in un esperire integrale od olistico (non duale, direbbe un seguace dell’Advaita Vedanta), all’insegna ‒ potremmo aggiungere ‒ della paolina auspicata unitas spiritus, per merito della quale l’uomo può davvero sentirsi partecipe del divino, ritenersi essenzialmente–esistenzialmente figlio di Dio.
Per molto (troppo) tempo la mistica è stata altresì vista come espressione religiosa fatta propria da rare ed eccezionali menti elette ‒ da un’élite, insomma ‒ e poco adatta alla maggior parte delle persone ordinarie; quasi che a queste la straordinarietà del sentire fosse preclusa a priori. Niente di più errato: tutti possiamo accostarci alla mistica; ma per fare ciò dobbiamo in primo luogo liberarci dell’egocentrismo (in antico chiamato filautia), quindi distaccarci dall’inessenziale, affidarci senza timore a Dio (o alla vita, per chi non è credente) e, non da ultimo, aprirci alla dimensione agapica dell’amore oblativo, disinteressato e fraterno.
Sì, la mistica ‒ specie quella cristiana ‒ affronta il tema della divinità, ma non va confusa con la teologia. Scrive sempre Panikkar a questo proposito che “Se la mistica parla di Dio, non lo presenta come l’unico presupposto per la coerenza; lo presenta come un’esperienza ultima. Ciò che la mistica teista chiama Dio ci si dà nell’esperienza e non come principio che deve essere accettato né come risultato di alcuna dimostrazione”. Da qui proviene la assoluta libertà del mistico, che non difende o proclama alcun dogma ma, si diceva, si affida semplicemente a Quegli che familiarmente chiama Spirito, Logos, Dio.
Non posso fare a meno di citare in continuazione frasi di Panikkar, tanto esse mi sembrano colpire con una precisione esemplare, e nel centro esatto, il cuore dell’argomento. Basterebbe questa annotazione a rendere pregevole il suo libro: “L’intuizione mistica è un’esperienza tanto amorosa quanto conoscitiva – vale a dire che tocchiamo la realtà con la conoscenza e con l’amore. La mistica ‘scopre’ che è un solo tocco. Uno dei suoi effetti collaterali e, al contempo, un criterio della sua autenticità, è la liberazione da una delle angustie della ragione: che non può comprendere tutto. La ragione, infatti, tende all’intellezione. Il che significa che cerca un Principio che spieghi tutto – ma non trova questa ‘pietra filosofale’”. O quest’altra: “L’esperienza mistica, la visione del terzo occhio non separato dagli altri due, ci lascia sentire la luce folgorante che abbaglia l’intelletto senza per questo distruggerlo. La luce non abbaglia un cieco. È precisamente perché vede con l’intelletto colmo di amore e sente con un amore colmo di conoscenza che il mistico penetra nel mistero in quanto tale; vale a dire senza dissolverlo”.
Ancora: l’esperienza mistica non separa l’immanenza dalla trascendenza, non è dualistica ma nemmeno monistica; innanzitutto non è concettuale, poiché comprende che i nostri concetti non possono esaurire la realtà, l’Essere, la cui esperienza è primordiale. Ci invita semmai alla meditazione che si rivela poi ‒ al di là delle varie tecniche con cui viene effettuata ‒ pura attività contemplativa: ascolto e attenzione a ciò che può dirci/rivelarci il silenzio e la assenza di immagini, quando chiudiamo gli occhi senza più nulla pensare, bramare o detestare.
Ma in questo raccoglimento aperto, in questa consapevolezza attenta a tutto quanto proviene da dentro e da fuori di noi “Si tratta di un ‘salto al Tutto’ o di una ‘discesa al Nulla’?”, si domanda Panikkar. E così risponde: “Le due metafore sono complementari e si incontrano nella loro rispettiva impossibilità: se si compisse il salto, la Trascendenza cesserebbe di essere tale; se la discesa fosse reale, l’Immanenza scomparirebbe. Né l’esperienza della Trascendenza né quella dell’Immanenza possono essere un’esperienza meramente mentale; richiedono amore. Bisogna uscire da se stessi: l’oggetto in quanto tale non sta in me (ob-iectum). La mia conoscenza esige però di assimilarlo, cioè di convertirlo in soggetto (sub-iectum) e per questo bisogna anche amarlo. Nel tocco fra l’oggetto e il soggetto non ci sono né immanenza né trascendenza separate né separabili”.
Cosa altro aggiungere? Forse che la mistica è (anche) una forma sublime di conoscenza, non quella ordinaria, però. Oppure che è il recupero dell’innocenza perduta, anzi la ricreazione di essa, giacché tramite l’ottica mistica noi non abbiamo più davanti alcun oggetto, né ci arroghiamo di essere un soggetto che controlla e modifica a suo vantaggio ciò che esperisce. Potremmo definirla, come fa il Nostro, una “non-coscienza-di-sé”, giusto in quanto essa è mera coscienza: sorta di consapevolezza che non è ormai più consapevole d’esser tale. Una dotta ignoranza, tuttavia, per dirla con Nicola Cusano.
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