Non era passati che pochi mesi dall’elezione al Soglio di Pietro che ecco, il primo gesto dirompente di Paolo VI andava dritto ad una questione cruciale che ha attraversato la storia della Chiesa con fasi drammatiche. Il 4, 5 e 6 gennaio 1964 il Papa intraprendeva il suo primo viaggio proprio nella terra dei Padri, alle fonti del cristianesimo, nel cuore dell’ebraismo. Era la prima volta che un pontefice si recava, dalla fondazione della Chiesa, nello Stato d’Israele, nelle terre della Palestina.
Il Papa dei gesti compiva il gesto più inatteso. E chi ha memoria di quel gennaio di 55 anni fa, sa quanto quel viaggio, improvviso e straordinario, colpì il mondo intero. Da quel momento veniva sciolto un equivoco secolare e si apriva la strada ad una nuova storia dei rapporti tra Chiesa cattolica ed ebraismo che avrà il suo culmine con la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma.
Equivoco. Non è un caso che proprio nel momento di lasciare Gerusalemme, il 5 gennaio, Paolo VI abbia difeso il suo predecessore e maestro, Pio XII, da quell’accusa che ancora perdura in buona parte del mondo ebraico, d’essere stato tiepido e silente di fronte all’Olocausto.
“Noi siamo venuti tra voi con i sentimenti di Colui che Noi abbiamo piena coscienza di rappresentare, e che i Profeti hanno annunciato precedentemente con il nome di Principe della Pace. Questo significa che Noi non nutriamo verso tutti gli uomini e verso tutti i popoli, che sentimenti di benevolenza. La Chiesa li ama tutti allo stesso modo. Il Nostro grande Predecessore Pio XII l’affermò con forza e molte volte nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, e tutto il mondo sa ciò che egli ha fatto per la difesa e la salvezza di tutti coloro che erano nella prova, senza alcuna distinzione. Dunque voi lo sapete, si è voluto gettare il sospetto e anche varie accuse contro la memoria di questo grande Pontefice. Noi siamo felici d’aver l’occasione d’affermare in questo giorno e in questo luogo: nulla è più ingiusto di questo attacco ad una così venerabile memoria. Coloro che hanno, come Noi, conosciuto da vicino questa anima ammirevole, sanno fin dove poteva arrivare la sua sensibilità, la sua compassione per le sofferenze umane, il suo coraggio, la delicatezza del suo cuore. Lo sanno bene anche coloro che, all’indomani della guerra, vennero, con le lacrime agli occhi a ringraziarlo perché aveva loro salvato la vita”.
Gesto coraggioso e soprattutto parole chiare. E nessuno meglio di Montini poteva sapere quanto la Chiesa aveva fatto in quegli anni terribili per gli ebrei. Uomo di punta della Segreteria di Stato, il prelato bresciano aveva ricoperto discretamente un ruolo di primo piano per alleviare il più possibile le sofferenze non solo degli ebrei, ma di ogni perseguitato politico. La ricerca storica mette in luce, man mano che affiorano i documenti, quanto Montini sia stato centrale nelle relazioni diplomatiche, nell’opera di persuasione perfino con le alte gerarchie del fascismo.
Ma la questione Pio XII non si è mai sciolta. Chi, come chi scrive, ha avuto modo di frequentare padre Peter Gumpel, che nella casa generalizia dei gesuiti condivideva gli spazi esistenziali e di studio con padre Paolo Molinari, primo postulatore della causa di beatificazione di Paolo VI, sa quale sofferenza sia passata nel suo cuore nel vedere bloccata dall’equivoco ebraico la causa di Pio XII, cui padre Gumpel ha dedicato gran parte della vita.
L’inequivocabile posizione montiniana nei confronti della questione ebraica e della persecuzione degli ebrei, che in Italia si istituzionalizza con le leggi razziali del 1938, radica in realtà nella profonda riflessione culturale e politica che il sacerdote bresciano è venuto accompagnando, in qualità di assistente spirituale nazionale, all’interno del mondo degli universitari cattolici tra il 1925 e il 1930. In particolare è assai feconda la riflessione intorno allo Stato etico, o meglio, alla religione politica, che prometteva redenzioni immanenti attraverso la predilezione e la selezione.
Il pensiero maritainiano dei “Tre riformatori”, quello di Karl Adam, l’analisi storico-filosofica dell’amico Mario Bendiscioli, costituiscono una premessa decisiva, una produzione d’anticorpi sul tema dell’essenza della civiltà, che lascerà segni decisivi in Montini e nella Chiesa dell’ultima tranche del XX secolo.
La questione è di sostanza, certo. Ma direi che è soprattutto questione di linguaggi. E Montini-Paolo VI è un grande maestro di linguaggi, un grande sacerdote della parola che dice la cosa, e – dunque – la qualifica. Così, il magistero pontificale sulla questione della relazione intrinseca – e inevitabile – tra le due Alleanze, si dispiega innanzitutto attraverso un’attenta elaborazione dei linguaggi che mai sono disgiunti – anzi ne sono la sostanziazione formale – dai gesti.
Il cammino è avviato proprio perché la parola è inequivocabile. E trova radice non solo nel rispetto – dato e richiesto – per la storia e l’identità di ciascuno, ma perché il linguaggio ricolloca ciascuno nel posto che gli spetta nella storia comune della Salvezza. “Io sono Pietro, il mio nome è Paolo”: non vi è alcuna tentazione di mimetismo nel rapporto con l’altro, il diverso da sé. Anzi, ancor più grande è l’affetto e il rispetto, quanto più all’altro ci si presenta con il proprio volto.
Se il rapporto di conoscenza, amicizia, fraternità con “i nostri fratelli maggiori” – come ebbe a dire Giovanni Paolo II – ha potuto compiersi e consolidarsi, questo è avvenuto perché Paolo VI ha collocato senza equivoci le radici di una fraternità al di sopra della buona volontà degli uomini, della loro intelligenza, ma nel cuore stesso della Storia, misteriosa e drammatica, ma insieme inesorabilmente scritta dal dito di Dio. Un Dio comune, il cui nome è riconosciuto. E il nome dice la cosa.
Insomma, ciò che viene riconosciuto è la coscienza “del grande patrimonio spirituale comune al popolo del Nuovo Testamento e alla discendenza d’Abramo” cui il Concilio stesso ha voluto guardare, incoraggiando “fra cristiani ed ebrei la conoscenza e la stima reciproca, basata soprattutto sulla Bibbia e sviluppati in un dialogo fraterno”. Perché “Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe che noi adoriamo è un Dio della pace” (25 luglio 1967). Perché è proprio il mistero di questa comune appartenenza che “trascende tutte le categorie umane” e chiama “a sforzi di fruttuosa collaborazione per il bene dell’umanità intera, affinché venga un giorno in cui tutti i popoli possano invocare il Signore con una sola voce” (23 agosto 1968).
A Manila, a Sydney, negli Stati Uniti: non c’è viaggio in cui Paolo VI non rivolga parole d’affetto per le locali comunità ebraiche, e non v’è luogo in cui queste non desiderino incontrare il Papa. Gesti e parole.
Ma è certamente il documento Nostra Aetate (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane) pubblicato il 28 ottobre 1965, praticamente a chiusura del Concilio, che introduce quegli elementi dottrinali decisivi per sciogliere quel nodo doloroso fondato sull’equivoco rapporto tra figli del medesimo Dio. Già durante le sessioni conciliari il tema del rapporto con il popolo ebraico s’era posto in modo pressante, soprattutto in riferimento alle responsabilità, tramandate di generazione in generazione per due millenni, circa l’uccisione del Figlio di Dio. La questione non era soltanto dottrinale, ma impegnava le responsabilità della Chiesa nei confronti di tutti i cristiani residenti nel mondo arabo. Perché ogni apertura nei confronti degli ebrei comportava reazioni significative nel campo musulmano. Ma non solo. Anche all’interno della Chiesa cattolica le resistenze all’apertura di Paolo VI all’ebraismo erano vissute da taluni ambienti come pericolose. Yves Congar ricorda nel suo Diario conciliare le tensioni di quei giorni: “Mi parlano di due fascicoli contro la dichiarazione sulle religioni non cristiane (li ho avuti […]). Ho avuto anche una fotocopia di un libello incredibile. (…). Il Concilio vi è definito conciliabolo e si parla addirittura di un diritto di resistenza, fondato sul diritto di legittima difesa contro l’ebraismo internazionale e i suoi piani sovversivi”.
La dichiarazione, che già era stata respinta nel giugno 1962, durante il pontificato di Giovanni XXIII, con Paolo VI, il suo costante intervento, la sua azione diplomatica, la sua capacità di dialogo, i gesti fraterni, diverrà un caposaldo decisivo della nuova stagione dei rapporti tra Chiesa ed ebrei. Anche in questo caso il Papa evita ogni mimetismo o silenzio di comodo, ma entra nel vivo della questione con parole pertinenti. Per affermare innanzitutto “il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo”; per ribadire che “la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù” e che la Chiesa che “ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo”; per sottolineare che, seppure gli ebrei non abbiano accettato il Vangelo, essi “in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio” e soprattutto che “se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo”. Veniva spazzata via con queste poche parole una convinzione dottrinale secolare e dura a morire, indispensabile per ogni futuro passo d’avvicinamento.
La raccomandazione che ne segue è davvero rivoluzionaria per la sua chiarezza e per la sua perentorietà: “Gli Ebrei (…) non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo”. Come spesso accade, Paolo VI chiarisce ulteriormente il suo pensiero nell’omelia alla Messa dello stesso 28 ottobre. Il tema è la vitalità della Chiesa, l’amore per i fratelli separati, il rapporto con i fratelli non cristiani. C’è chi fa notare che gli Ebrei sono, tra questi, gli unici che il Papa cita espressamente: “Vogliamo parimenti guardare i seguaci delle altre Religioni, fra tutti quelli a cui la parentela di Abramo ci unisce, gli Ebrei specialmente, non già oggetto di riprovazione o di diffidenza, ma di rispetto e di amore e di speranza”.
Man mano che il tempo passa e il peso degli anni rallenta il passo del Papa, la sua parola si fa poetica. Perché è nella parola tendente all’universale che Paolo VI ritrova l’innesco di una possibile nuova civiltà fondata sull’amore. Perché l’amore, innanzitutto deve essere detto. Parola poetica, non polivalente, non equivoca, non emotiva. È parola che riconosce senza mai smettere di chiamare. È nella notte di Natale del 1975, Anno Santo, che si sintetizza la grande visione dell’innamorato:
“Trema la nostra voce, di commozione, non d’incertezza, affermando che il richiamo è anche, e, in un certo senso, specialmente per voi, che siete solidali con noi, in Abramo, della nostra fede e tuttora figli della sua promessa, in noi già operante. E ancora non tace la nostra chiamata. Essa vuole diffondersi verso i lontani, verso gli spiriti vagabondi, solitari, sfiduciati, verso i cuori chiusi, e perfino verso coloro che si sono resi refrattari alla religione e alla fede: venite! Sarà forse la nostra una parola al vento? In ogni caso, non sarà priva d’una sua segreta virtù, che non deriva dalla nostra debole voce, ma dal fatto inconfutabile al quale essa rende testimonianza: Cristo vi attende!”.