È uscito in America un libro su Pier Paolo Pasolini. La notizia non è Pasolini, è l’America. La sfaccettata personalità pasoliniana, con la sua varia attività di artista, teorico, scrittore e polemista, in Italia è sufficientemente nota nella sua dimensione poliedrica. Nessuno da noi definirebbe Pasolini un regista, e basta. In America invece è famoso solo per i suoi film ed è quindi benvenuto il libro di Ara H. Merjian, Against the Avant-Garde. Pasolini, Contemporary Art and Neo-Capitalism (University of Chicago Press, 2020).
È forse la prima volta che negli Stati Uniti un saggio ampio, uscito presso una autorevole casa editrice, discute sistematicamente le posizioni dell’intellettuale friulano, senza ovviamente dimenticare la sua attività per il cinema, ma puntando soprattutto a capire l’interdisciplinarietà – se ci si passa il termine un po’ scolastico – della sua figura e delle sue opere.
Del resto Merjian, americano di nascita ma armeno di origine e oggi docente alla New York University, è lui stesso un esempio di interdisciplinarietà, perché si interessa da tempo di arte, letteratura, filosofia, storia delle religioni, cinema, legando insieme ciò che apparentemente è lontano. Famosi tra gli specialisti sono i suoi interventi sul rapporto fra de Chirico e la cultura ebraica. Che il padre della pittura metafisica abbia vissuto a Ferrara, dove c’era un antico ghetto, lo sanno tutti. Nessuno però aveva esplorato così a fondo gli influssi della civiltà mosaica sull’artista, analizzandoli sia per via di levare, cioè eliminando ipotesi suggestive ma inverificabili, sia per via di porre, cioè scoprendo quanto de Chirico doveva aver realmente conosciuto.
Veniamo però a Pasolini. L’autore del Vangelo secondo Matteo è sempre stato uno spirito libero. Politicamente di sinistra, non ha amato il Sessantotto e non ha esitato, per esempio, a prendere idealmente le parti dei giovani poliziotti contro quelle degli universitari contestatori. E non perché fosse un amante di caserme e ordine militaresco, ma al contrario, perché sapeva che un uomo, prima di essere un fascista o un comunista, un carabiniere o un civile, è appunto un uomo. Cioè qualcuno che merita rispetto e, se del caso, compassione. Per questo poteva scrivere, rivolgendosi agli studenti: “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri”. E aggiungeva, parlando di quelli che venivano chiamati spregiativamente celerini: “E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico in cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)”.
Analogamente anche la posizione di Pasolini contro le avanguardie, come Merjian dimostra in modo convincente, non derivava da una incapacità di comprendere gli sperimentalismi e le ricerche del moderno, né tantomeno dalla nostalgia di una pittura tradizionale e cartolinesca, tutta tramonti sul lago e ritratti di gentili signore, ma dalla sua avversione al neocapitalismo, alla civiltà del consumismo e del nuovo. Perché correndo alla ricerca dell’originale si dimentica ciò che è originario, cioè che sta all’origine e non muta. E inseguendo l’eccentrico si dimentica il centro. Pasolini, insomma, avrebbe potuto condividere l’affermazione di Gadda: “Se una cosa è più moderna di un’altra, vuol dire che non sono eterne né l’una né l’altra”. Oppure la dichiarazione di Patominos nella Milleduesima notte di Philip Roth: “Gli uomini sono sottoposti alla legge del cambiamento. È una legge illusoria, perché non esiste cambiamento”.
Molte altre sarebbero le considerazioni che si potrebbero avanzare, ma preferiamo concludere con una sola: con questo libro, che speriamo venga tradotto anche in italiano, Merjian si candida a diventare uno dei maggiori specialisti di Pasolini della sua generazione. E soprattutto dimostra che Pasolini, scomparso quasi mezzo secolo fa quando aveva solo 53 anni, ha ancora molto da insegnarci.