Quasi allo scadere del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (1922-1975), nel riscontrare che in verità ci si attendevano maggiori occasioni di fruizione e di nuovo approfondimento dell’opera cinematografica, letteraria, intellettuale tout court firmata dal regista friulano, abbiamo constatato che sulla sua non dubitabile attenzione alla musica, vuoi a titolo di fruizione personale, vuoi per l’elaborazione (mai semplice e banale) delle colonne sonore dei suoi film, nulla di nuovo è criticamente venuto alla luce dopo gli studi di Giuseppe Magaletta del 1997, di Roberto Calabretta del 1999 e (importante, ma pochissimo attinente al cinema) di Claudia Calabrese del 2020. Un breve riepilogo sul punto potrebbe allora esser non inutile.



È per noi sempre stato sicuro che quel “mondo sonoro” pasoliniano sia di origine, struttura e progress assai peculiari e compositi, dunque di non agevole ermeneutica. Soprattutto ove sull’argomento si prenda a legittima icona di riferimento un Luchino Visconti: violoncellista, legato sin dall’infanzia alla costante presenza familiare al Teatro alla Scala, dotato di una cultura e di una sensibilità raffinatissime, regista d’opera e di film a forte componente melodrammatica (basti pensare a Senso). Il background musicale di Pasolini era ben altro. E se partiva da un pur iniziale studio del violino e del pianoforte, si è mosso fin dagli anni friulani in modo assai libero, con l’unico orizzonte di una personale discoteca di LP (poi nel tempo assai ampliata) e con una costante predilezione per pochissimi autori, quali Bach (cui dedica non secondarie analisi delle valenze drammaturgiche anche di brevi frammenti), Vivaldi, Mozart. E con un’assoluta libertà di perscrutazioni “altre”, a partire dal folclore friulano e all’etnos internazionale, per scendere ai mondi d’alcuni compositori d’avanguardia, delle canzoni disimpegnate (condizionante presenza degli anni Sessanta) e di quelle più politicamente o socialmente connotate (si pensi a Laura Betti).



Certo la percezione di un sound in atto, da rievocare o da costruire, è per lui, soprattutto dopo il trasferimento a Roma, motivo di riflessione, di spunti creativi sempre forti. “La musica nella parabola artistico-esistenziale di Pasolini non costituisce un semplice oggetto d’indagine […]. Il mondo dei suoni, che ugualmente talvolta è presente nella sua biografia e incessantemente nella sua poetica, è invece una della chiavi per accedere all’universo del suo pensiero” (Calabretto). È per questo che non tanto “in laboratorio” qui interessa dire di Pasolini e della musica, quanto nell’attuazione, talora di sconvolgente pregnanza, della dialettica musica-immagine nella sua cinematografia.



Che inizia, com’è noto, con un’opera che nel 1961 apparve di urtante violenza umana: Accattone. Interamente scritto e diretto da lui, è l’approdo visivo di non pochi racconti già editi: il mondo giovanile di un’estrema periferia romana (ben riconoscibili ancor oggi i luoghi), pullulante di baracche, edilizia fatiscente e piccole osterie attorno a cui si coagulano delinquenza e prostituzione, la vita breve di Vittorio (detto “accattone”), che nel morire per la prima volta dice “Mo’ sto bene”, ricevono da Pasolini uno sfondo sonoro costituito da pagine della Matthäus Passion e dall’Andante del Secondo Concerto Brandeburghese BWV 1047 di Johann Sebastian Bach. Una tecnica, uno stile già s’impongono: la musica è una sorta di “voce” fuori campo che non fa udire parole e testi, ma il sentimento di pietas d’un coro greco, di una folla cui siamo invitati ad unirci. L’ effetto è sì straniato, ma poetico e patetico in sommo grado. È qui che la classicità arcaica e mediterranea connaturata in Pasolini ha un primo sbocco, assolutamente innovatore nella storia della musica da film.

Non molto diversamente si  propone il titolo subito seguente, quel Mamma Roma ove la presenza di Anna Magnani conferisce ad una vicenda simile a quella di Accattone l’afflato eroico della grande tragédienne. Ed ove rimane senz’altro trafittiva la lunga sequenza dell’agonia del figlio di Mamma Roma, legato ad un letto di contenzione, sulla cui ripresa – che evoca senz’ambagi il Cristo morto del Mantegna – il Largo dal Concerto per piccolo e orchestra d’archi RV 443 di Antonio Vivaldi, effonde una melodia desolata e commossa, latrice d’un dolore che assume dimensioni cosmiche.

Se la svagata, amara ironia, le repentine commistioni, dal twist a Scarlatti, rendono La ricotta un episodio forse non maggiore della cinematografia del Nostro, deve certo sottolinearsi come la colonna sonora per Il Vangelo secondo Matteo (1964) costituisca un raggiungimento di quota invero assai alta, se non storica. Il lavoro di collazione tradisce una ricerca e una profondità eccezionali. Se anche qui Bach – con la Matthäus Passion, il Concerto per violino e oboe BWV 1060, la Fuga ricercata n.6 dall’Offerta musicale nella versione di Anton Webern, il Dona nobis pacem dalla Hohe Messe BWV 232 e il Concerto per violino BWV 1042 – ha una parte preponderante, non va taciuto che il film si apre e si chiude con il Gloria della Missa Luba, che Mozart e Prokofiev vi hanno presenza non marginali e che il neonato Messia è teneramente cullato da Sometimes I feel like a motherless child, uno spiritual di grande suggestione e che il bellissimo Dark Was the Night, Cold Was the Ground di Blind Willie Johnson non gli è da meno. Sì che una sorta di grande e composita partitura integra e assai sovente amplifica, nobilita talora in modo determinante la bellezza scarna eppur toccante di immagini che non nascondono lo studio di certa scultura alto-medievale e di Masaccio. Anche per la musica, Il Vangelo secondo Matteo resta senz’altro un capolavoro.

Uccellacci e uccellini, affidato ad Ennio Morricone, appare invece tra gli esiti più strani del rapporto tra Pasolini e la musica: per l’irruzione iniziale della voce di Domenico Modugno, ma soprattutto ove si pensi che gran parte della vivace colonna sonora consta di abili, quasi invisibili arrangiamenti del duetto “Bei Männern, welche Liebe fühlen” da Il flauto magico di Mozart.

Edipo re e Medea dal punto di vista musicale sono una svolta: hanno in comune “interminabili silenzi, rumori primordiali, urla, gesti e poche parole, che inoltre risuonano oscure e indecifrabili. In Edipo re la musica viene elevata a una dimensione simbolica, assumendo funzioni rilevanti nel contesto narrativo. Nel corso del film, infatti, la presenza del flauto, strumento dai forti connotati mitici, appare subito associato all’immagine dell’indovino Tiresia. Questo incontro è introdotto dalla melodia del flauto suonato dallo stesso Tiresia, poeta che canta “ciò che è al di là del destino” (Calabretto).

È tuttavia, quella che va dalla fine del anni Sessanta in poi, un’ampia fase della creatività di Pasolini in cui la musica sembra perdere d’importanza, sembra ridursi a frammento minimalista – Teorema e Porcile sono in tal senso emblematici – a ciclici barlumi di memoria o a semplici risonanze ambientali. E in fondo così sarà per la trilogia novellistica (Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, tra il 1971 e il 1974), tutta ancora affidata ad Ennio Morricone: e nella quale la “colonna sonora” riprende un suo ruolo più consueto, forse più superficiale. Sembra quasi che nella dialettica pasoliniana – quella tra “la carne e il cielo”, tra speranze di purificazione e aneliti di misericordia – la maturità di lui vada “smarrendo il cielo” per “inchinarsi alla carne”. Ciò in cui la musica non può allor essere che arredamento, améublement lascivo, suggestione sensuale pur accattivante assai, come  per le continue folate maliosamente orientali ne Il fiore delle mille e una notte.

Poi Pasolini sembrerà – con Salò – voler intrigarsi a frugare più nell’inferno che nell’uomo o nel cielo. Sarà “una visione alla Bosch [ove], dopo il pianoforte, sentiamo [tra l’altro] il canto montanaro Stelutis alpinis e Veris Leta Facies dai Carmina Burana di Carl Orff […] suoni stridenti e acuti, seguiti da accordi profondi che reggono una cantilena tutt’altro che primaverile, ieratica, alleggerita con intermezzi di campanelli e flauti, suoni che restano per sempre associati all’orrore […]” (Zaffaroni). Ma la maggior opera di Orff in realtà coi nazi-fascismi non ebbe a spartire che l’epoca. Molta della musica di Salò è esito di scelte banali o deludenti. E resta sullo sfondo d’una vaneggiante ballata sul Male.

Oltre la quale – se vita ancora gli fosse stata concessa – Pier Paolo forse sarebbe dantescamente uscito a riveder le stelle. A risalire verso quel cielo – che è sempre oltre la carne e l’inferno – mirabilmente sperato e poeticizzato da Accattone, da Mamma Roma, da Il Vangelo secondo Matteo.

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