Il numero 10 nel calcio evoca stereotipi ripetuti talmente tante volte da diventare noiosi: genio, imprevedibilità, sregolatezza. Tutto vero, per carità – soprattutto nella mente e nell’immaginario di noi tifosi, che ci aspettiamo sempre una magia dal numero 10 –, ma in questo bel libro di  Evaristo Beccalossi con Eleonora Rossi, La mia vita da numero 10 (Diarkos 2024) viene fuori molto più che l’elenco celebrativo dei tunnel dei dribbling e degli assist del “Becca”; viene a galla un uomo che sa voler bene e sa farsene volere.



È bello per me scrivere di un calciatore che racconta la sua vita, partendo non dai trionfi, ma da un fazzoletto di vita fuori dal campo, quando dice della sua amicizia con Franco Califano (l’altro cantante di cui è amicissimo è Enrico Ruggeri di cui il libro raccoglie un’introduzione). Con Franco il Becca diventa amico andando ad un suo spettacolo e poi non smettono di vedersi, cercarsi, passare notti insonni all’autogrill di Dalmine (l’unico posto che dopo una certa ora non li sbatte fuori per limiti di orario) parlando di tutto: “di calcio, di musica, delle nostre malinconie, delle luci e ombre che ci accompagnano nella vita”. Con Califano è come con Spillo (Alessandro Altobelli, uno dei più grandi e prolifici attaccanti dell’Inter e del campionato italiano, o con Oriali o con tantissimi altri), una storia di un’intesa immediata e duratura: un’amicizia speciale.



A fine carriera Beccalossi va a svernare a Barletta e un giorno, prima di una partita, si presenta Califano e naturalmente va in tribuna a tifare per l’amico che, forse eccitato, segna una doppietta: “al secondo gol mi diressi verso la tribuna per salutare Franco e dedicargli la rete. Avvicinatomi agli spalti, nel frastuono dello stadio comunale in festa, vidi gli spettatori della tribuna centrale che mi davano le spalle: avevano riconosciuto il Califfo e lo stavano tributando con un’ovazione, quasi infischiandosene del mio gol, mentre lui, elegantissimo in doppio petto blu, si sbracciava indicandomi e ripetendo ‘È n’amico mio! È n’amico mio!’”.



E poche righe sotto il sorriso muore quando nel 2013 Becca riceve la telefonata di Edoardo Vianello, che, nel dirgli la scomparsa di Franco, gli legge un biglietto trovato in casa: “se parto per l’ultimo viaggio avvisate il Becca. Grazie. F”.

Evaristo Beccaolossi, numero dieci geniale che gioca a testa alta sia di destro che di sinistro, che come ha scritto di lui Gianni Brera “vede autostrade dove gli altri scorgono solo viottoli di campagna”, ama sì le giocate in cui salta l’uomo, ma più di tutto – e non stupisce – ama il passaggio filtrante, l’assist che mette il compagno da solo davanti alla porta: gode nel dare all’altro la possibilità. Ha vinto poco per il talento cristallino che indossava, ma non ha rimpianti né recriminazioni, nemmeno per non essere convocato – avendone più che diritto – ai Mondiali di Spagna dell’82, dove gli azzurri tornarono da vincitori.

Ha un bel sorriso di chi ama la vita, di chi sa che per il talento che ha gli viene perdonato quasi tutto, come quando in Coppa delle Coppe, a San Siro contro lo Slovan di Bratislava, sbaglia non uno, ma ben due rigori e quella sera tornando mestamente a prendere la macchina che parcheggiava nei pressi dello stadio (altri tempi) al bar dove lasciava le chiavi trova un tifoso con cui già altre volte ha scambiato quattro chiacchiere. “Quella volta, forse per sfogarmi e buttar fuori l’amarezza, vuotai il sacco e raccontai come mi sentivo a quell’attento spettatore”. Passa del tempo prima che il Becca vede in televisione quel tifoso insieme a Claudio Bisio, è Paolo Rossi che di lì a qualche anno lo cerca perché quel tratto di insuccesso clamoroso lo vuole rendere un monologo da portare sul palco, ed il Becca non solo accetta, ma più di una volta entra in scena calcando le scene di tanti teatri. Ecco uno stralcio del celebre pezzo:

“Allora spiego chi era Beccalossi.
Beccalossi è stato uno dei più grandi talenti inespressi del calcio italiano …
Io non posso dimenticare una partita che era Inter-Slovan Bratislava …
A un certo punto diede un calcio di rigore all’Inter … Lui (Beccalossi) guardò tutto lo stadio e disse ‘lo tiro io’
E io pensai con tutto lo stadio: questi sono gli uomini veri.
Prese la palla e la mise sul dischetto del calcio di rigore.
Lo fece con la sicurezza dell’uomo che non avrebbe mai e poi mai sbagliato.
E sbagliò.
E io pensai: per me resta un uomo.
Ma quando dopo cinque minuti c’è un altro calcio di rigore, Lui guardò tutto lo stadio negli occhi e tutto lo stadio fece: ‘No, puttana Eva…’
‘Lo tiro io’.
E mise la palla sul dischetto del calcio di rigore con la sicurezza dell’uomo che non avrebbe mai risbagliato.
E risbagliò.
E io ripensai: per me resta sempre un uomo. Un po’ sfigato, ma sempre un uomo”.

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