In una poesia di Osip Mandel’štam dedicata alla liturgia eucaristica, si legge: “Prendere tra le mani il mondo intero, come una semplice mela…”. Proprio in questi versi, nelle sue conversazioni radiofoniche che negli anni della cortina di ferro raggiungevano attraverso le onde di Radio Liberty l’Unione Sovietica, padre Aleksandr Šmeman sintetizzava il senso di una festa tanto cara alla tradizione orientale come la Trasfigurazione, che si celebra ancor oggi rivestendo le chiese di fronde verdi, come a portare al loro interno l’intero creato, e benedicendo i frutti della terra, facendo memoria del fatto che Dio creò ogni cosa e vide che tutto “era cosa buona”.
In una mela, come “in tutto ciò che esiste al mondo, la fede vede, ravvisa, accoglie il dono di Dio, un dono pieno d’amore, di bellezza, di sapienza, un dono che parla dell’amore smisurato che ha creato il mondo e la vita e ce li ha donati, come nostra vita”, osservava Šmeman. Al contrario – rilevava – il nostro peccato consiste nella superficialità per cui smettiamo di accorgercene, e così “tutto al mondo – anche noi stessi – diventa prosaico, meschino, vacuo. La mela si riduce semplicemente ad essere una mela. Il pane ad essere pane. E l’uomo ad essere semplicemente un uomo. Ne conosciamo il peso, l’aspetto esteriore, le funzioni, ne sappiamo tutto ma in realtà ormai non li conosciamo più”.
Questa sapienza liturgica di farci riappropriare delle cose è passata in dono dell’arte. Nel secolo negatore di Dio, in Russia sono stati i poeti a tener desta la possibilità di una reale conoscenza del mondo. Come scriveva, ancora, Mandel’štam: “Dire ‘sole’ significa compiere un lunghissimo viaggio, a cui però siamo così abituati che viaggiamo dormendo. La poesia si distingue dal linguaggio automatico perché a metà della parola ci riscuote e ci risveglia”.
La luce del Tabor, centrale nella festa della Trasfigurazione, ci riporta all’autentica percezione delle cose, del reale, nella loro novità del “primo mattino della creazione”: finalmente non più soltanto parole ridotte a gusci vuoti, suoni a cui non corrispondono immagini, sapori, significati, ma che lasciano filtrare il soffio del mistero che anima tutta la realtà e la trasforma in soggetto parlante, in un interlocutore che continuamente sorprende perché lo evoca, lo rivela. Non è, quella taborica, una luce estatica che astrae dalla realtà – com’era sembrato, ingenuamente, a Pietro, che proponeva di costruire tre capanne per restare indefinitamente in quel luogo – ma, al contrario, la “luce della conoscenza” (secondo un’espressione della liturgia bizantina) che illumina fin d’ora i futuri, sconvolgenti passi della Passione di Cristo e ne svela la ragionevolezza profonda.
Nella sua conversazione radiofonica padre Šmeman non tralascia di interrogarsi sull’aspetto più paradossale del reale come “dono divino”, che fa sì che “la vita stessa diventa lode, letizia e gratitudine”, cioè sulla presenza – nell’esperienza umana – della sofferenza e la morte. Insieme alla sua risposta di fede – la nostra partecipazione alla vita di Cristo risorto, possiamo rintracciare ancora una volta la risposta di un grande poeta russo del XX secolo, Boris Pasternak, che alla Trasfigurazione collega, per l’appunto, in primo luogo, la morte. La sua poesia Agosto, appartenente al ciclo del Dottor Živago, costituisce una limpida metafora della morte e resurrezione, di cui l’uomo fa esperienza ad ogni istante fino al compiersi del suo destino ultimo: le lacrime versate dal poeta nel sonno sognando il proprio funerale, il sole che lo ridesta al mattino dissipando le ombre, la memoria improvvisa “che oggi/ era il sei agosto del vecchio calendario,/ la Trasfigurazione del Signore”, la “luce senza fiamma/ che emana in questo giorno dal Tabor” sono altrettante immagini del dramma che si consuma nell’esistenza di ogni uomo – per Pasternak, nel concreto, le vicissitudini legate alle persecuzioni della sua opera poetica, il declino della sua salute – e della sua quotidiana possibilità di trasfigurazione.
In un tripudio di vividi colori della natura, che alludono al fuoco interiore che la anima, si assiste al passaggio dalla materialità, finitezza delle cose:
Nel bosco, in mezzo al cimitero, stava,
agrimensore ufficiale, la morte
guardando nel mio volto inanimato
per scavarmi una fossa secondo misura.
– un passaggio (in cui anche la morte deve fare i conti con il volto dell’uomo, con la sua statura), a un’altra dimensione, che implica, sì, un distacco, ma in nome di una pienezza nuova, in nome della verginità esigita dall’eterno, e di cui l’arte, “creazione e dono di miracoli”, è sempre profezia:
Addio, slancio appena accennato dell’ala,
libera ostinazione del volo,
e immagine del mondo rivelata nella parola,
e creazione e dono dei miracoli!
È un tema caro a Pasternak, questa possibilità di contemplare dall’alto di uno “slancio appena accennato dell’ala” di una “libera ostinazione del volo” l’“agrimensore ufficiale” e quanti sono convenuti al suo funerale. No, il poeta non è misurabile nei centimetri necessari a deporre il suo corpo nella fossa, ha la statura del “dialogo con Dio” in cui percepisce la vocazione – la sua propria vocazione di poeta e di uomo.