Il 27 agosto è caduto il settantesimo anniversario della morte di Cesare Pavese: decesso tragico, prematuro, come tutti sappiamo. Già nella serata del 27 agosto 1950 si diffuse velocemente la notizia della morte volontaria dell’autore, per ingerimento del contenuto di una dozzina di bustine di sonnifero, in una camera dell’Hotel Roma, in piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione ferroviaria di Porta Nuova, nell’amata-odiata Torino.
Nell’agosto del 1990, dunque quarant’anni dopo, il giorno 8, il quotidiano torinese “La Stampa”, alle pagine 15-17, pubblicava un testo non solamente inedito dell’autore, ma completamente sconosciuto, nel senso più ampio e profondo dell’aggettivo, con una equilibrata presentazione del suo scopritore, Lorenzo Mondo: si tratta del Taccuino segreto, ora ripubblicato, per la prima volta in volume, in una elegante edizione da Aragno: Cesare Pavese, Il Taccuino segreto, a cura di Francesca Belvisio, con una testimonianza di Lorenzo Mondo, Introduzione di Angelo d’Orsi (Nino Aragno Editore, Torino 2020, pagine CXXV- 118, 25 euro).
Il cosiddetto Taccuino era un bloc-notes di piccole dimensioni (12×15 cm), privo di copertina e i cui fogli mancanti furono utilizzati precedentemente. Il Taccuino conta trenta foglietti non numerati, in carta quadrettata, vergati – per lo più a matita, con qualche aggiunta a penna – unicamente sul fronte. L’ultimo foglietto, non fotocopiato da Lorenzo Mondo, conteneva annotazioni, nomi di allievi e orari settimanali per lezioni di italiano e latino (fortunati quelli allievi!, verrebbe da dire). L’edizione Aragno riproduce pertanto anche i ventinove fogli originali.
Queste annotazioni rappresentano un importante strumento per meglio conoscere i risvolti del pensiero di Pavese: il Taccuino segreto, infatti, è una sorta di diario intellettuale condensato e sintetico, che reca le tracce di un percorso di letture e che fornisce indicazioni preziose sulle possibili fonti che hanno potuto determinare la genesi di alcune idee pavesiane.
Troviamo quindi Vico, oggetto di una lunga trascrizione anche nelle note del diario del 2 e 5 novembre 1943. Ma c’è anche un riferimento indiretto a Shakespeare (alla pagina 23), sul quale Pavese indugia in una lunga meditazione che percorre quasi tutte le note del diario dell’ottobre 1943.
Nel Taccuino troviamo anche un apprezzamento per Stendhal, il quale “nato troppo presto” (pagina 17), sarebbe uno di quegli scrittori che “piacciono per la loro esistenza – per l’atteggiamento da loro preso nell’esistenza”, come si legge in un passo del diario. Sempre Stendhal viene altrove evocato nel diario, per esempio in una nota del 15 settembre 1943, in cui lo scrittore francese è chiamato in causa con Dostoevskij, nome che, senza sorprenderci troppo, ritorna nel Taccuino segreto.
Qui il diario del romanziere russo è presentato come un esempio di scrittura capace di scandagliare la tematica bellica: “Perfino Dostoevskij, il poeta della pietà, fa nel Diario di uno scrittore l’elogio della guerra. Come mai? Capiva la lezione di disciplina, di sacrificio, di patria che la guerra dà. In questo è più completo di Nietzsche, e a lui superiore” (pagine 20-21). L’autore di Delitto e castigo, citato abbondantemente nel diario, dove viene accostato ai più grandi scrittori di tutti i tempi, ritorna spesso in associazioni sorprendenti (Cristo-Dostoevskij a pagina 87 del diario; Dickens-Dostoevskij a pagina 133); ma c’è anche l’abbinamento Nietzsche-Dostoevskij, che costituisce un leitmotiv della riflessione pavesiana, in diversi loci della scrittura diaristica, ma anche in alcune postille scritte a margine di taluni passaggi de La nascita della tragedia.
Ed è proprio il filosofo di Basilea la figura più citata nelle pagine del Taccuino segreto. Una delle piste che ci consentirebbe di orientarci nel labirinto testuale pavesiano conduce verso un frammento di questo bloc-notes, cui è forte la tentazione di assegnare un ruolo privilegiato nel percorso intellettuale dell’autore: “Perché nel ’40 ti sei messo a studiare tedesco? Quella voglia, che ti pareva soltanto commerciale, era l’impulso del subcosciente a entrare in una nuova realtà. Amor fati”.
Solo da pochi anni, infatti, si è sollevato un velo su un aspetto poco noto e trascurato nella biografia intellettuale di Cesare Pavese, ovvero la passione per la lingua tedesca: tra l’altro, non sempre si ricorda che egli si consacrò alla traduzione di alcuni grandi classici della filosofia tedesca, fra i quali appunto primeggia Nietzsche, oggetto di uno studio molto assiduo. Le pagine del Taccuino recherebbero le tracce di riferimenti espliciti e impliciti a concetti di morale e politica appartenenti al pensiero nietzschiano, mentre nel diario i riferimenti diretti all’autore di Al di là del bene e del male appaiono più rarefatti e prudenti.
In particolare, il tema della disciplina capace di fornire un ordine agli uomini proteggendoli dal disordine del mondo sta al centro di una vasta riflessione di Nietzsche, nella sua analisi della genealogia dei pensieri morali, in particolare nel secondo e terzo capitolo della Genealogia della morale, di cui Pavese realizzò una traduzione parziale sul suo volume. E se è vero, come afferma Pavese, che il solo aspetto mancante alla virtù latina è il senso della disciplina, il fascismo, in quanto struttura statale forte, permetterebbe alle masse di vivere armoniosamente e prosperare.
L’osservazione potrebbe affondare le radici nella riflessione sull’“istinto gregario” e sull’importanza della cosiddetta “formazione del gregge” in seno alla civiltà occidentale elaborata da Nietzsche. Il fascismo, dunque, sarebbe stato per gli italiani una forma di disciplina? Pavese nel diario (25 ottobre 1942) si interroga sulla apparentemente irresolubile aporia in cui versa la situazione politica italiana: “Una cosa fa rabbia. Gli antif(ascisti scil.) sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto …E mostra ben che alla virtù latina o nulla manca o sol la disciplina… Il f(ascismo) è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma insomma gli fa bene”. E cosi, nel Taccuino, annota (pagina 17), citando due autori apparentemente lontanissimi dalla sua sensibilità, che “D’Annunzio, se fosse vivo, avrebbe che dire. Ci sono molte Italie. A ogni epoca se ne scopre una. In questi giorni abbiamo certo cambiato epoca. Ridiventano possibili il Carducci e D’Annunzio”.
Ma, al di là dei raffronti incrociati con il diario e con le altre tappe della formazione intellettuale di Pavese, utili a fornirci nuovi tasselli per conoscere ancor meglio l’autore, il valore di questo libro sta anche nell’emozione che regala al lettore poter vedere e leggere la grafia di un gigante del nostro Novecento.