“Infine gli piace assai Herman Melville, il cui Moby Dick ha tradotto, non sa con quanta competenza, ma con molto trasporto, una ventina di anni fa e che ancora adesso gli serve da pungolo a concepire i suoi racconti non come descrizioni ma come giudizi fantastici della realtà”.

Così Cesare Pavese riassumeva il suo ultimo giudizio su Melville nel giugno del 1950, pochi mesi prima di morire, in un’intervista alla radio (ora in La letteratura americana e altri saggi). Tra i tanti meriti di Pavese vi è quello di aver introdotto in Italia la conoscenza dei grandi scrittori statunitensi, insieme con Vittorini, ideatore della famosa antologia Americana, pubblicata da Bompiani nel 1942.



Al regime fascista non sfuggì il fine non solo culturale ma politico dell’iniziativa, volta a diffondere nel nostro Paese il mito americano della libertà contro l’autarchia dell’Italia dell’epoca. Pavese aveva iniziato a tradurre gli scrittori americani già nel ’30, con un saggio su Sinclair Lewis, Premio Nobel in quell’anno. Il 1930 è anche l’anno della sua laurea, con una tesi su Walt Whitman. Ma l’incontro più importante fu con Melville e il suo Moby Dick, tradotto per Frassinelli nel ’32 e poi di nuovo per lo stesso editore nel ’41: una traduzione che farà scuola, su cui si formeranno generazioni di lettori, per quanto la conoscenza dell’inglese da parte del giovane Pavese non fosse certo perfetta.



Nell’intervista citata, prima di Melville ricorre il nome di Vico, il filosofo napoletano del Settecento, autore della Scienza Nuova, fondamentale per la costruzione dell’estetica del mito di Pavese. Vico viene presentato come il “narratore di un’avventura intellettuale, descrittore ed evocatore rigoroso di un mondo – quello eroico dei primi popoli”. La presenza di Vico si era saldata alla fine degli anni Quaranta con le letture etnologiche di autori come Frazer, Kerenyi, Propp, Levy Bruhl, Gratry, Eliade, pubblicati nella “Collana viola” della Einaudi, diretta da Pavese con Ernesto de Martino: un altro suo grande merito culturale, a testimonianza del coraggio intellettuale dello scrittore piemontese.



Nelle pagine di Vico, Pavese ravviserà “quel senso di realtà simbolica e insieme fondata su saldissime istituzioni”, “fonte prima di ogni poesia degna di questo nome”. L’estetica del mito di Pavese si baserà su fonti molteplici: gli scrittori americani, specialmente Melville; le letture di Vico e quelle etnologiche, psicologiche e religiose della “Collana viola”; il ritorno nelle Langhe, a Santo Stefano Belbo dov’era nato nel 1908, ispirazione primaria per i “romanzi del ritorno”, tra cui spicca il capolavoro La luna e i falò, l’ultima opera pubblicata nel 1950.

Di Melville lo colpì prima di tutto la combinazione di barbarie, primitivismo, di naïveté e di profonda cultura: era il “baleniere letterato”, come lo definì in un articolo del ’32. In Moby Dick tale fusione riceve una rappresentazione icastica nel narratore Ismaele, “un marinaio che può remare coi colleghi illetterati mezza giornata dietro a un capodoglio e che poi si ritira sulla testa d’albero a meditare Platone”.

Indubbie le suggestioni della lettura del romanzo su Pavese: la poesia I mari del Sud contiene nel finale un riferimento esplicito, quasi un omaggio a Melville: il cugino ritornato sulle Langhe racconta di aver “veduto volare i ramponi pesanti nel sole, / ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue / e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia”. La potente immagine richiama appunto il capitano Achab e i suoi balenieri alla caccia disperata del mostro sanguinario. Ma c’è anche chi ha visto nel titolo del libro che fu più caro a Pavese, Dialoghi con Leucò, un’allusione, oltre che a Bianca Garufi, la donna frequentata in quegli anni, anche al biancore della balena melvilliana. E la famosa citazione dal King Lear di Shakespeare, Ripeness is all (“La maturità è tutto”), che apre La luna e i falò, è la stessa sottolineata da Melville nella sua copia della tragedia shakespeariana.

Moby Dick pare a Pavese “un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra”, in cui la Bibbia ha un ruolo predominante. Nella prefazione alla seconda edizione del ’41, un Pavese più maturo scriverà: “la ricchezza di una favola sta nella capacità ch’essa possiede di simboleggiare il maggior numero di esperienze”. Nino Arrigo, che ha dedicato un robusto saggio al confronto tra i due scrittori, ha notato che “dietro l’apparenza del realismo, la caccia alla balena, la guerra, la resistenza, si cerca la realtà noumenica, l’archetipo della vita e della morte”.

Non a caso, Pavese si rifarà alla griglia mitica della Commedia dantesca per La luna e i falò, definita dall’autore “una modesta Divina Commedia”. Nel carattere poematico Pavese cercava un’interezza, una globalità della visione, ma ancora di più un respiro, un ritmo indistinto, che si ripete uguale, come quello del destino: le onde del mare di Melville diventano in lui le curve delle colline. I “giudizi fantastici” di cui parla a proposito di Melville, sono gli “universali fantastici” di Vico: sono gli “stampi ricorrenti”, risalenti all’infanzia, di cui abbiamo bisogno per conoscere. Lo stampo conoscitivo fu per Pavese, soprattutto dopo l’esperienza dell’esilio monferrino di Crea e la sua permanenza al collegio Trevisio dei padri Somaschi, fra il settembre del ’43 e l’aprile del ’45, il mito. Per Vico “i primi uomini, come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere somiglianti…”.

In Moby Dick Pavese vedrà, come nella Scienza Nuova, la possibilità di fondere elementi opposti in una armonica concordia discors: la permanenza e la variazione, la libertà e il destino, la natura e la cultura, il cuore e la ragione, l’istinto e la razionalità, il mythos e il logos, in una tensione dinamica mai esaurita e perciò poetica: è il realismo simbolico che caratterizzerà le ultime opere di Pavese, da Feria d’agosto in poi. Da qui viene il suo rifiuto ad essere etichettato come neorealista: al posto di trame, di personaggi o peggio di tesi precostituite, si accampano in lui sensazioni, atmosfere, nomi, tipi continuamente ripetuti, “fissi”, come i miti e gli archetipi.

Al mito è necessario il mistero, il quale non può che essere sacro: per questo dirà, citando ancora Vico: “il vero poetico è un vero metafisico”. Per il filosofo napoletano, “la sapienza poetica (…) dovette cominciare da una metafisica, non ragionata e astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie”. Pavese ripeterà: “il mito è storia vera perché è storia sacra”. Al fondo dell’estetica pavesiana del mito vi è quindi un atteggiamento religioso. Nel mito, secondo Furio Jesi, lo scrittore vide “il volto della realtà, dell’essere”.

   In una famosa stroncatura, Moravia disse che Pavese si formò il mito dell’America perché non ci andò mai. In effetti, da giovane Pavese coltivò il sogno di recarsi negli States, per ottenere un incarico universitario, prospettiva che poi non si realizzò. Da perfetto stratega della rinuncia, Pavese si servì di questa mancanza per trasferire il mito nella sua arte.