“Il samizdat consisteva nella diffusione clandestina di scritti illegali, poiché censurati dalle autorità, (…). I poeti e gli scrittori del samizdat furono talora processati, incarcerati, messi in ospedali psichiatrici e lager, puniti, espulsi, uccisi, perdendo lavoro e posizione sociale”.

Così è scritto nelle prime righe di Wikipedia, questo bigino dell’informazione, user friendly, spesso anche troppo friendly.



Apparentemente sembrano parole appropriate, concetti noti e condivisi (almeno nei significati), descrizioni di avvenimenti già processati dalla storia, così processati da entrare a far parte persino di qualche libro di testo scolastico (una volta caduto un certo veto politico).

Cosa c’è dunque di nuovo? Perché parlarne ancora? Perché parlarne ora?



Perché quando un avvenimento accade, allora se ne parla. Ma quando riaccade, cioè quando tutto quello che già sapevamo, già avevamo giudicato, accettato e metabolizzato, addirittura utilizzato nella quotidiana comunicazione, come iconica espressione di significati, per definire e quindi possedere la realtà, quando tutto ciò prende la forma delle ferite dei corpi, delle lacrime di persone, di voci che gridano, allora è il tempo delle domande.

Al potere, al nemico, alla storia, ma anche a noi stessi.

Samizdat, letteralmente edito in proprio: che cosa le centinaia di soldati morti, le migliaia di profughi di ogni età, i milioni di spettatori dei telegiornali di tutto il mondo editano in proprio, raccontano di questa guerra in Ucraina? Siamo tutti protagonisti, volenti o nolenti, di questo avvenimento: se non abbiamo rinunciato ad usare la ragione, ad ascoltare il cuore, ciascuno di noi è il direttore del proprio samizdat: almeno di un pensiero, di un grido, di un dolore, edito in proprio.



Forse, di fronte alla drammaticità di ciò che sta accadendo, il nostro disagio, la nostra ribellione, ci sembrano inutili, talmente scontati che ci pare quasi di non doverne parlare, forse per impedire che tutto ciò ci possa ferire nel profondo. Mentre vogliamo fortemente che tutto possa finire al più presto, non abbiamo il coraggio di domandarlo: come quando si desidera qualcosa senza nemmeno cominciare a cercarla. La censura del nostro samizdat inizia dentro noi, perché quella di fuori ci ha già convinto che non sia possibile che, parafrasando Cesare Pavese, un intervento dall’esterno possa mutare la direzione. Sappiamo bene cosa vorremmo. Come ogni degna aspirante al titolo di miss, risponderemmo senza indugio: la pace nel mondo.

Ma non sappiamo, o abbiamo dimenticato,  a chi chiedere, a chi rivolgerci.

Se da una parte il nichilismo, che permea la mentalità dell’uomo moderno, suggerisce di voltare lo sguardo altrove, perché tanto tutto sarebbe inutile, tutto ineluttabilmente accade senza poterci fare nulla, per altro verso una sorta di panteismo “cialtrone” interviene a liberare le coscienze da responsabilità, indipendentemente dalla ragione o dal torto. Persino una certa distorta visione escatologica, che contempla l’esistenza del Paradiso come meta da raggiungere dopo un tempo precario e senza senso, trascorso senza lasciare alcun segno in questo mondo, finisce per derubare l’umanità di quel connotato esistenziale che fa coesistere nell’uomo, come un miracolo,  la carne e lo spirito. Così il dramma, vissuto nei corpi straziati dalle bombe, e nelle anime confuse per la perdita della propria identità, diventa argomento di speculazione, motivo di sdegno, manifesto di opinioni contrapposte.

Ma le immagini trasmesse dai telegiornali dei volti degli anziani e dei bambini in fuga ci raggiungono con una potenza molto più deflagrante delle bombe lanciate sulle case e sugli ospedali, e ci costringono inevitabilmente a cercare qualcuno a cui poterci rivolgere. Perché difronte a tutto questo male, un istante dopo aver espresso il desiderio che finisca, che finisca subito, la cosa più vera ed umana è quella di cercare qualcuno che possa intervenire.

Qualcuno che già è entrato potentemente nella storia dell’umanità, per sconfiggere il male, ogni male, anche il nostro: Cristo, il Dio incarnato, che ha condiviso tutto, fino a morire nella carne.

Ecco Colui che toglie i peccati del mondo, recita la liturgia, ecco Colui che ha vinto il male.

Ma, come ha recentemente ricordato monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo metropolita della Madre di Dio a Mosca, bisogna crederci davvero, bisogna credere davvero che l’invocazione non resterà inascoltata, che la nostra preghiera, la nostra personale preghiera, di poveracci, è l’indispensabile e originale contributo che possiamo dare per far tacere questo orrore. Il nostro samizdat.

Qualche giorno fa ho saputo che due giovani amici di nostra figlia hanno preso un aereo per raggiungere la Romania per incontrare una giovane madre che, con un bimbo piccolo, era fuggita dall’Ucraina con la propria auto, ma che non era più in grado di continuare il viaggio.

Al tempo del samizdat, in Unione Sovietica, spesso venivano pubblicate storie incredibili, storie “buone”, quelle che aiutavano a vivere, che davano speranza, la forza di resistere, la ragione e la dignità di essere protagonisti della storia personale e di quella del mondo.

Un po’ come quella di questi due giovani, pubblicata sul loro personale samizdat.

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