Il primo fu Maurice Barrès. Lui a dare notizia della morte al fronte del “nostro caro tenente, il coraggioso Charles Péguy, lo scrittore, il poeta” (L’Écho de Paris, 17 settembre 1914) e lui il primo a indirizzarne e condizionarne la lettura, e strettamente nell’ottica del sacrificio: “gli è stato concesso di mostrare in un minuto la verità della sua opera”. Un Péguy eroe di guerra, patriota prima di tutto, che per le sue parole contro il mondo moderno – e, insieme, per l’esaltazione del ruolo storico della Francia – apparirà ai più, qualche decennio dopo, come il precursore del maresciallo Petain e delle sue idee.



D’altra parte, troppo “irregolare” la sua esperienza religiosa per essere considerata esemplare dal punto di vista della fede. Henri Daniel-Rops stesso, gran difensore della cultura cattolica, ripartirà ancora dalla “sanzione del sangue”: “Ha ragione il Barrès quando dice che per essere nel vero si deve studiare il Péguy considerato come un pensiero eroico”.



Sarà necessario aspettare lo studio di von Balthasar per apprezzare la fondatezza del pensiero di Péguy dal punto di vista cristiano e riconoscere come esso anticipi in modo sorprendente alcuni aspetti del pensiero teologico moderno; e come il suo “parlare così cristiano” avrebbe avuto comunque lo stesso valore di testimonianza anche senza la morte sul campo di battaglia.

Ma come dice Bernanos, Péguy “risponde ogni volta che lo chiamiamo” per offrirci scoperte sempre nuove. E dunque non bisogna smettere di ascoltare i suoi versi, di farsi interrogare per non fermarsi a ciò che già conosciamo, per non ridurlo a uno stereotipo che ci corrisponde, come per tanti anni è stato ridotto all’eroe di guerra e al patriota; magari per accorgerci che può illuminare in modo originale anche questi nostri tempi.



Questo l’approccio, e anche “affettuoso”, come a qualcosa che si ha caro, che caratterizza il libro Mistero dei misteri. La speranza secondo Péguy di Paolo Prosperi (Scholé Morcelliana, 2023); un accompagnamento puntuale dentro le parole del poeta francese lungo la linea di un’immedesimazione personale: come è ben evidente nei capitoli centrali, nei quali il confronto con la propria esperienza dell’amare e dell’essere amati è condizione per la comprensione di ciò che Péguy intende come speranza; e per scoprire come il Dio cui egli dà voce abbia “immaginato” la sua relazione con l’uomo, come attenda di essere amato, specifica Prosperi, “non solo liberamente ma gratuitamente”.

“Che era dunque l’uomo. / Quell’uomo che era venuto a salvare. / Del quale aveva rivestito la natura. / Non lo sapeva”. (Péguy, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco)

In questa relazione con Dio l’uomo è il primo “mistero” a sé e a Cristo stesso, un mistero che sembra impedire il proposito divino di redenzione. Tanto che Péguy, che ha sempre cercato e chiesto la giustizia e la salvezza anche eterna per tutti gli uomini, di fronte all’impossibilità o al disinteresse di Dio verso le sorti dell’uomo, giunge con la sua Giovanna, come scrive Balthasar, a penetrare “fin nel centro delle tenebre”, fino a farle offrire la propria dannazione per la salvezza degli uomini perduti.

“Oh mio Dio, se occorre per salvare dall’eterna fiamma / I corpi dei dannati sconvolti dalla sofferenza, / Abbandonare il mio corpo all’eterna fiamma, / mio Dio, dà il mio corpo all’eterna fiamma”.

Una disperazione che il Figlio dell’uomo sembra condividere.

“È che il figlio di Dio sapeva / che la sofferenza del Figlio dell’uomo è vana / A salvare i dannati, / e sconvolgendosi più di loro della loro disperazione / Gesù morendo pianse sugli abbandonati”.

Su questo pianto, su cui il libro stabilisce i suoi passi iniziali, nasce – inattesa – la speranza, come una scoperta che cambia lo sguardo sul mondo e su Dio; e anche, potremmo dire, lo sguardo di Dio stesso: “Così lei sola dai residui del Giudizio e dalle rovine / E dalle macerie del tempo / Farà sprizzare un’eternità nuova”. (Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù)

Scrive Prosperi: “Péguy è innamorato della speranza proprio perché ama profondamente l’uomo e la sua terra”, e dalla speranza dipende “la possibilità di comprendere l’ordine, la bellezza, la giustizia del tutto”. È come la fede del centurione, “grande perché è come se scaturisse dal nulla: il nulla di una totale mancanza di carte da giocare”, “(…) atto che punta sull’onnipotente generosità dell’Altro”. E, continua, “come fede e carità, ragiona il poeta, così anche la speranza non è frutto della sola grazia, bensì della feconda sinergia tra la grazia e la libertà dell’uomo”.

“Come la loro libertà è il riflesso della mia libertà, / Così mi piace trovare in loro come una certa gratuità, / Che sia come il riflesso della gratuità della mia grazia. / Che sia come creata a immagine della gratuità della mia grazia”. (Péguy, Il mistero dei santi innocenti)

Con la stessa dinamica di reciprocità, la speranza ha a che fare, scrive ancora Prosperi, “con il desiderio dell’uomo, ma anche con il desiderio e l’attesa di Dio. (…) Egli liberamente si mette nella condizione di poter sperare nell’uomo e dall’uomo. (…), vuol dargli la possibilità di vincerLo a sua volta con la generosità dei propri doni, cioè appunto delle sue suppliche e inginocchiamenti”. “Regnum caelorum vïolenza pate / da caldo amore e da viva speranza”, scrive Dante.

La preghiera, continua Prosperi, non è allora solo la richiesta di un bene, di una concessione, ma “un abbandono fiducioso di sé nelle braccia di Qualcuno che si riconosce capace di elargire tale bene”, e la speranza, una “dimensione interiore dell’atto d’amore”. L’amante è tale infatti solo se “eleva la persona amata al rango di colei o colui che ha il potere di esaudire la sua attesa, (…) se la ama a tal punto da riporre in lei la propria speranza”. L’atto di speranza consiste dunque nel confidare nell’amore dell’amata e il desiderio di ricevere amore, il dono più generoso che egli le offre. “Mai l’amante diviene capace di dare gioia alla persona amata come nell’atto di lasciar trasparire l’ardore del proprio desiderio d’essere da lei amato, cioè nell’atto di mendicare amore”. La speranza dell’uomo mendica l’amore di Dio, quella di Dio, l’amore dell’uomo.

In questo modo la speranza apre all’eterno le porte del tempo. “Ora la piccola speranza / È quella che sempre ricomincia. / Quella nascita perpetua. Quell’infanzia perpetua”. (Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù)

“La speranza stupisce Dio – commenta Prosperi – perché essa sola è capace di riflettere la gloria delle due più meravigliose opere della divina grazia: la Creazione e la Redenzione; (…) la speranza è ciò che nell’universo creato meglio riverbera il divino potere di iniziare e re-iniziare sempre”.

Così concepita, prosegue, la speranza è “il potere di compiere azioni che riflettono nello spazio e nel tempo la libertà creatrice e ricreatice di Dio. (…) Sperando, l’anima compie così un’opera assai più grande di quanto ella si immagini: consente all’eterno di rivestirsi di un nuovo modo d’essere. Quello della eternità temporale e carnale, della eternità terrestre”.

E possiamo dire che questo è, ancora oggi, il compito del cristiano: la possibilità di uno sguardo diverso su ogni cosa, uno sguardo “profetico”, cioè secondo l’ottica di Dio, che permette anche a ciò che è più doloroso o difficoltoso di “rivestirsi di un nuovo modo d’essere”, di una forma nuova e inattesa.

In un mondo impaurito, nel quale l’uomo si ritrova solo e quasi “condannato” sotto il peso delle circostanze, questo sguardo di speranza che trasforma le cose, che rende possibile vivere ogni situazione, è ciò che il mondo aspetta; è la testimonianza della fede.

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