“Fa’ di me quel che vuoi, solo concedimi di amarti pienamente”: è la bellissima, semplicissima preghiera trovata scritta su una cartolina che una madre di famiglia austriaca, al momento della sua scomparsa, teneva sul tavolo di casa. Umile figura del popolo cristiano d’altri tempi, in contesti difficili e di povertà diffusa aveva messo al mondo undici figli, di cui otto presero la via del sacerdozio e della vita religiosa. Da uno di questi era stata spedita la cartolina su cui la donna sigillò il suo più vivo desiderio, nel momento in cui sentì piombare su di lei l’ultima ora. Quel giorno era iniziato come gli altri che l’avevano preceduto. Al mattino la donna aveva partecipato alla messa e ricevuto il corpo del Signore, poi si era dedicata ai suoi soliti lavori quotidiani. Arrivata la sera, benedette come di consueto le foto dei figli insieme al marito, era andata in cucina per prepararsi una tazza di caffè. Lì la sorprese un malore fatale. Qualche attimo di sospensione dolorosa, in bilico tra la vita e la morte. E subito il colpo finale: stramazzò a terra priva di sensi e tre ore dopo spirò.



Il toccante episodio è ricordato all’inizio di una delle omelie più suggestive del papa emerito raccolte a cura di Pierluca Azzaro nel recente volumetto Per amore (Cantagalli, 2019). La madre tutta assorbita nei doveri del banale servizio quotidiano diventa qui immediatamente l’icona dell’atteggiamento fondamentale di ogni autentico fedele cristiano. È l’esempio perfettamente imitabile di una vita centrata sull’essenziale, nel solco della più sincera “fede dei piccoli”: quella verso la quale siamo invitati a incamminarci anche se vantiamo lusinghieri titoli di studio e occupiamo posizioni di responsabilità nel campo delle professioni, della cultura o della politica. La sua anima segreta è lo slancio amoroso dell’affidamento: il cuore di una fede che rinasca continuamente, giorno dopo giorno, da una fiducia senza limiti, libera, vitale, appassionata, poggiando sulla radiosa “totalità del sì dato a Dio senza riserva”. Bisogna che il “sì” scaturisca dall’amore condiviso: “credere con una fede che è amore”.



L’icona che prende forma attraverso questi richiami al movimento costitutivo della fede che si fa vita è, con ogni evidenza, un’icona mariana. Maria è l’esempio supremo a cui guardare: ci si può immedesimare nel modello della fede amorosa guardando a lei che è stata “tutta in ascolto”, protesa a lasciarsi abbracciare dalla potenza della grazia che l’attirava nello spazio divino. La madre di Cristo era “piena di grazia” perché inondata dalla carità sovrannaturale che in lei chiedeva di diventare feconda per generare il miracolo della novità umana riconciliata con la sua origine. Maria è grande soprattutto in quanto crede “perché ama”, e in questo diventa essa stessa amore che si apre nel dono della gratitudine riconoscente, dono che si espande nell’accoglienza e nella consolazione dilatate fino a noi oggi.



Lo si vede nel modo più clamoroso nella dinamica della compassione che in Maria, all’inizio del fiume inesauribile della pietà cristiana dispiegata sull’arco dei secoli, si è nutrita stando davanti alla croce. La croce di Cristo è il vertice della rivelazione del volto di Dio, il segno dell’amore che si mostra pienamente visibile. Le braccia distese sul legno del patibolo coincidono fisicamente con una donazione che si fa totale: la croce è nella sua essenza l’amore che si dona. Ma la misura di questo dono è la totale smisuratezza: dono sovrabbondante, esagerato, assolutamente senza risparmio, che fuoriesce prepotente dal fondo dell’Eterno, da ciò che ha fatto esistere tutte le cose, e perciò le riunisce a sé, le redime fin dalle loro più oscure radici.

La gloria che risplende nella figura di Cristo crocifisso poggia intera la sua forza sul fluire di una misericordia che ci precede, ci viene incontro e chiede il nostro sì per stringerci nel nodo di una relazione che crea la comunione. Lo svelarsi della maestà di Dio che salva tocca il suo culmine nell’opposto dell’umiliazione che fa piegare il cielo sulla bassezza della terra. Sulla croce, Dio si fa piccolo, è come se si inginocchiasse davanti a noi. È il paradosso della massima esaltazione che passa attraverso l’eccesso dell’umiltà estrema. Il ribaltamento non si innesta solo sull’apoteosi drammatica della passione, ultimo atto dell’avvenimento di Dio che prende forma umana e si fa largo nella storia del mondo, condividendola fino alle sue punte di massima lontananza e di solitudine disperante. L’intera linea conduttrice della vicenda di Cristo sta sotto il giogo dell’altezza più elevata che si spoglia calandosi in ciò che è piccolo e umile. È la spinta che conduce all’incarnazione del Figlio di Dio nato come uomo dal grembo di Maria, al silenzio appartato di Nazareth, alla consegna appassionata di sé nella missione degli ultimi tre anni, al succedersi dei miracoli in risposta alla commiserazione per il dolore del mondo. In crescendo, fino al sacrificio dell’ultima cena, fino al gesto programmatico della lavanda dei piedi e al dono della permanente presenza nel sacramento del pane e del vino eucaristico.

Sempre ritorna al centro della scena lo spettacolo dell’amore che si consuma chinandosi ad abbracciare la realtà sofferente dell’uomo e nel servire, per portare “la carne dell’uomo fin dentro la potenza del Dio vivente”, come è reso trasparente nell’evento finale della resurrezione. La fede vissuta nella semplice dedizione del sì gioioso alla presenza di Cristo immette il cristiano nella condivisione del medesimo destino: la fede indirizza la vita sulla strada di una sequela che, nella pazienza del tempo che passa, rimodella l’io credente facendolo aderire alla forma trasfigurante con cui ci si fonde. Incorporato nell’unità, l’io cristiano si mette a sua volta in azione ricalcando l’identico movimento, aiutato lungo il cammino dalle figure luminose dei santi che, al pari di Maria, sono “lampade accese” e “guide sicure” che illuminano la via da percorrere. La fede sorretta dall’amore che rigenera è una luce che si comunica attraendo inesorabilmente. Ha la forza contagiosa del fascino che si scatena come una sotterranea energia “radioattiva” dentro le viscere della storia umana, capace di perforare la crosta delle apparenze, dei rifiuti polemici e delle ideologie o dei pregiudizi anche più ostili.

Questa fede umile, aperta e luminosa è il vero tesoro prezioso da offrire al mondo in crisi perenne, che fa sentire, stridendo, il suo grido di bisogno. Non saremo giudicati sul grado di efficienza del puro attivismo esteriore, se è vero che Cristo non attende da noi la “trasformazione magica del mondo”, per “far scomparire il dolore e cambiare il sistema”, ma che dentro l’orizzonte del mondo reale e le sue sofferenze, già adesso, ci apriamo alla vera luce e la lasciamo entrare in noi. In modo che egli “a partire da noi possa risplendere” e il mondo diventi “un mondo consolato”, dove l’amore distrutto, l’amore tradito e violato, possano essere condivisi e risanati dall’interno delle loro stesse ferite.