Letteratura, fiction tv, fumetti improntati ad un futuro apocalittico sembrano avere prefigurato la pandemia di coronavirus. Non è un caso
Se soltanto qualche mese fa ci avessero avvertito, probabilmente avremmo riso di gusto. O al massimo avremmo tacciato di catastrofismo, di fanatico millenarismo, i cori sempre più frequenti levatisi a difesa del pianeta. Se ci avessero detto che il mondo a cui eravamo abituati sarebbe stato stravolto e sfigurato non solo da una piaga invisibile, ma dalla nostra colpevole imprevidenza, avremmo risposto che la vita non è un film.
Sbagliando per l’ennesima volta: perché i giorni che da inizio anno si succedono lungo un’asfissiante e vorticosa spirale, colmi di domande dal tono sbigottito – o di risposte troppo dolorose da poter accettare – ci hanno dimostrato una volta di più quanto la finzione sia anche previsione. E quanto il paradosso, la caricatura siano necessari per scuotere le fondamenta di una società intorpidita.
Su questi binari, negli ultimi anni, si sono mossi la narrativa e il cinema: archiviati quasi sottovoce dalla furia consumistica che contraddistingue le dinamiche del mercato, adesso le loro intuizioni suonano come beffardi ed inascoltati anatemi.
Una rapida analisi che tenga in considerazione gli anni precedenti all’esplosione della pandemia, infatti, ci rivela il proliferare di opere appartenenti a generi e media differenti, eppure accomunate da una trama che prende le mosse, o si sviluppa, in uno sfondo post-apocalittico caratterizzato dal decadimento della civiltà dovuto al diffondersi di una qualche forma di agente patogeno o all’improvvisa rovina dell’ecosistema.
La prima tappa di questo straniante percorso non può che essere il 2010, anno del debutto della pluricelebrata serie statunitense The Walking Dead, nella quale il vicesceriffo Rick Grimes, risvegliatosi dopo essere stato ferito in una sparatoria, scopre una sconvolgente verità: un virus, sfuggito al controllo degli studiosi, ha il potere di risvegliare i morti tramutandoli in zombie che finiscono per scagliarsi furiosamente contro i non infetti.
Poco distante, nel 2013, fa la sua comparsa uno dei titoli videoludici più conosciuti e giocati di sempre: The Last of Us, all’interno del quale gli utenti, in un’America ridotta ad un’enorme zona di quarantena pattugliata da militari autorizzati a sparare a vista, impersonano Joel e la piccola Ellie, tra i pochi sopravvissuti alla ricerca disperata di una cura che metta fine alla pandemia innescata dal fungo Cordyceps, capace di mutare gli umani in creature mostruose.
Simile nell’impalcatura è anche un altro prodotto dell’industria del gaming a stelle e strisce, il recente Days Gone (2019), all’interno del quale il giocatore è chiamato a seguire le vicende di Deacon, tragicamente separato dalla moglie in un mondo preda dell’anarchia. La causa? La mutazione della specie umana in esseri regrediti ad una violenza primordiale, priva di ogni freno.
Diversamente da quanto potrebbe apparire, tuttavia, la scelta di scenari così estremi non è appena il frutto della fervida creatività hollywoodiana, ma uno stilema profondamente trasversale, che sotterraneo unisce Occidente e Oriente sotto il segno di medesime inquietudini. Come non attribuire a questa stessa temperie, del resto, un’opera come Dr. Stone, manga del 2017 ideato dal noto Riichirō Inagaki nel quale ogni essere umano è stato misteriosamente tramutato in pietra e la natura ha nuovamente preso il sopravvento su ogni traccia di antropizzazione?
E che dire di un altro prodotto fumettistico del Sol Levante, quel The Promised Neverland (2016) scritto da Kaiu Shirai nel quale, in una realtà alla rovescia, gli umani vengono allevati intensivamente da misteriose entità che se ne cibano?
Per quanto sia innegabile che l’immaginario apocalittico abbia permeato da secoli il nostro orizzonte d’attesa – spinto in primis dalla pervasività e dal fascino dell’archetipo biblico – e che andando indietro, da Blade Runner a Cowboy Bebop, sarebbe possibile individuare numerosi altri esempi significativi, la concentrazione con la quale esso si è ripresentato all’attenzione del fruitore contemporaneo ci obbliga ad una riflessione interessante, ma non per questo meno severa.
C’è sicuramente, nella proiezione fittizia attraverso la quale l’umanità si è ritratta, una lacerante autoaccusa. Contro la propria ostentata indifferenza, contro un paradigma produttivo ed esistenziale che ha rasentato l’ossessività, contro lo spettro di un sapere asservito alla tracotanza e all’ipocrisia. Ma c’è, contestualmente, una paura dai contorni sinistri, una perturbante sensazione di impotenza e di disillusione, uno smarrimento percepito come condanna alla rovina. La sensazione di aver creduto in un idolo falsamente favorevole.
Verso i mondi capovolti dal filtro sapiente della distopia, l’uomo prova un innato senso di repulsione subito congiunto ad un altro di attrazione: nel riflesso allo specchio, egli trema vedendo il risultato delle sue azioni, ma brama di conoscere il proprio destino, di apprendere se esiste la possibilità di ribaltarlo. Solo nella creazione letteraria, che può permettersi di indagare i meccanismi di funzionamento della realtà e le sue falle senza l’ingombro di padroni prepotenti, ogni comunità può captare il suo traviamento, il suo gravitare attorno all’autodistruzione.
Tuttavia, non va dimenticato, l’arte è anche sinonimo di speranza. Perciò, quando ci approcceremo a prodotti di questo genere, soprattutto in un momento storico così anomalo e delicato, dovremo farlo con una matura consapevolezza. Che sì, fumetti, film, videogiochi e libri sanno mostrarci senza scrupoli cosa siamo in procinto di diventare. Ma sanno anche indicarci il limite da non oltrepassare prima che sia troppo tardi.