Niente di nuovo sul fronte bibliotecario. Purtroppo. È questo il primo pensiero che, parafrasando Erich Maria Remarque, viene in mente leggendo Contro lo sfascio delle biblioteche italiane. Un manifesto per i presìdi culturali del territorio, a cura di Edoardo Barbieri e di recente pubblicazione, in formato digitale, per conto del Creleb (Centro di Ricerca Europeo Libro, Editoria Biblioteca dell’Università Cattolica di Milano, diretto dallo stesso Barbieri) e dell’Associazione Villa Classica.



Il punto di partenza di questa pubblicazione, che raccoglie dieci contributi di altrettanti studiosi o bibliotecari, vuole essere una denuncia, o meglio una critica, nel senso di attenta valutazione di un risultato o di una situazione, delle misure adottate per la riapertura delle biblioteche italiane a seguito dell’emergenza coronavirus.



Se nessuno mette in discussione le decisioni prese nella prima fase emergenziale della pandemia, che ha colto di sorpresa e colpito ovviamente tanto le biblioteche quanto tutti gli altri settori professionali e non solo, forse qualche appunto si può – e si deve – fare per quanto riguarda le misure stabilite in materia di ripresa dell’attività bibliotecaria e più in generale del settore culturale.

Molte sono le criticità messe sul tavolo dai diversi contributi del libro, tutti però più o meno concordanti nel rilevare una scarsa attenzione riservata al tema biblioteche, o addirittura una disparità di trattamento rispetto ad altre attività.



Perché imporre alle biblioteche, al netto delle sacrosante precauzioni, severe norme che regolano il numero degli ingressi e delle postazioni utilizzabili, gli orari di apertura, i servizi fruibili, mentre altre attività pubbliche possono essere frequentate senza alcuna limitazione? Su che base viene limitata la possibilità di consultare i libri i quali, dopo l’utilizzo, devono trascorrere diversi giorni in “quarantena” per un ipotetico (e non supportato da alcuna evidenza scientifica!) deposito di particelle sulla carta, quando la vendita di giornali e la spedizione di pacchi sono sempre stati garantiti? Sono queste alcune delle domande che in questo libro si pone chi la biblioteca la frequenta non tanto per piacere personale o per occupare il tempo libero, ma per portare avanti quotidianamente il proprio lavoro, perché specialmente “per un professore di Lettere e Filosofia la biblioteca non è meno necessaria del laboratorio per uno studioso di Chimica o Fisica” (Edoardo Barbieri, Introduzione, pagina 6).

Chiudere le biblioteche, o comunque rendere lente e macchinose le operazioni di riapertura e fruizione, diminuisce sicuramente il rischio di diffusione del virus, ma con altrettanta certezza annulla il senso dell’esistenza della biblioteca stessa e blocca gran parte dell’attività accademica e di ricerca alla base del progresso culturale di un Paese. Perché è pur vero che rallentare il ritorno alla normalità di altre attività, cosiddette produttive, nel senso che creano profitto economico, ha certamente come conseguenza estremi disagi per una società, ma è anche chiaro che la costante disattenzione nei confronti delle attività culturali, spesso considerate secondarie per la crescita della società stessa, è un problema di cui si discute da lustri, e che l’emergenza sanitaria ha semplicemente ribadito con forza.

Ed è proprio questa la questione cardine che emerge dai vari contributi: è vero che l’emergenza Covid ha causato notevoli disagi (che però tutti hanno accusato, in campo professionale, familiare e di vita quotidiana, ma che in qualche modo bisogna accettare per ripartire con maggior vigore), ma è anche vero che queste difficoltà si sono sommate ad altre problematiche che, come detto, si riscontrano da ormai troppo tempo.

Un esempio simile è quello della scuola, da anni ormai relegata agli ultimi posti dell’agenda politica del Paese e tema che in questi giorni riempie le pagine dei giornali; molti salgono in cattedra – non a caso – per denunciare (giustamente) una mancata programmazione per una seria e sicura riaperture delle aule scolastiche, ma la maggior parte dei problemi emersi non è di natura emergenziale o sanitaria, ma riguarda questioni di cui da tempo ci si riempie la bocca – tra cui la costante mancanza di insegnanti all’avvio dell’anno scolastico, la carenza di strumenti e materiali didattici, l’arretratezza delle strutture, e così via – ma che rimangono sempre nella nuvola della retorica senza mai essere tradotte in fatti concreti.

Lo stesso vale dunque per le biblioteche che, al di là delle affannose pratiche di riapertura, lamentano ancora problemi causati perlopiù, senza troppi giri di parole, dallo scarso impegno in termini di investimenti economici (entra maggiormente nel merito della questione Alessandro Tedesco, “Un futuro non solo digitale”, pagine 75-91), come mancanza di personale (spesso non qualificato), insufficienza di idee e di spirito propositivo che spesso incontra un’impossibilità pratica di organizzare iniziative di tutela e divulgazione del patrimonio, strutture talvolta poco attrezzate, specialmente per quanto riguarda la fruizione da parte delle persone con disabilità motorie (a proposito si veda il frizzante racconto personale di Andrea G. G. Parasiliti, “Uno spazio per me. Biblioteche e disabilità. Storia non romanzata delle mie ricerche”, pagine 50-66).

Nonostante tutte queste difficoltà, vale però la pena citare – e imitare! – alcuni esempi virtuosi (spesso e volentieri oltreoceano, come testimoniato da Natale Vacalebre, “Uno sguardo da oltreoceano (ovvero di tasse, speranze e biblioteche)”, pagine 92-99) di bibliotecari volenterosi e competenti pronti a farsi carico delle problematiche per cercare di limitare il più possibile i disagi degli utenti.

Questo libro dunque, disponibile in formato pdf ad accesso libero sul portale “Libri Antiqui”, a questo link, porta al centro del dibattito ancora una volta queste situazioni controverse e lo fa non solo dando voce alle diverse esperienze di figure accademiche e professionali che la biblioteca la vivono da differenti punti di vista, ma anche sviscerando argomenti forti e utilizzando toni talvolta decisi che si allontanano da uno stile politicamente corretto, poco adatto per inoltrarsi in una discussione che voglia entrare nel merito della questione: esattamente il registro che il dibattito culturale dovrebbe adottare, almeno in determinate circostanze.