Venerdì 11 febbraio Franco Nembrini sarà ospite al teatro Oscar di Milano per una nuova tappa del suo percorso alla scoperta della Commedia dantesca. Nembrini, professore ed educatore da oltre quarant’anni, unisce questa sua passione allo studio e al commento della Divina Commedia, più volte affrontato attraverso incontri, un programma televisivo, pubblicazioni di opere e collaborazioni. A breve infatti sarà disponibile, per Mondadori, il suo commento al secondo volume della Commedia illustrato da Gabriele dell’Otto. Da questa molteplicità di approcci diversi si comprende come la Divina Commedia non sia affrontata solo come testo scolastico: la proposta, anche di questo incontro, è che sia mezzo educativo, possibilità di approfondimento e domanda sulla nostra umanità.



Rispetto alla sua esperienza di insegnante ed educatore che cosa ha visto generare nei ragazzi la lettura della Divina Commedia? Ha ancora un valore studiare quest’opera a scuola?

Mi viene da dire che Dante ci salverà, se c’è una possibilità è quella. Se è vero quello che dice Dostoevskij, che la bellezza salverà il mondo, allora deve valere anche per Dante e l’esperienza che ho fatto in tanti anni di insegnamento è esattamente questa. La proposta di Dante per i ragazzi di oggi è quanto di più moderno, attuale, adeguato io possa aver visto finora. È esattamente quello che aspettano. Certo, bisogna saperlo presentare, bisogna saper stabilire quel legame tra il testo e la vita dei ragazzi, ed è proprio questo il compito dell’insegnante. È un fenomeno interessantissimo vedere ragazzi a cui apparentemente non importa di nulla – o, almeno, si dice che per loro sia così –   che davanti a una pagina di Dante si entusiasmano e si infiammano. È stata proprio l’esperienza di quarant’anni di insegnamento. E quando mi chiedono: ma come fai a entusiasmare i ragazzini di quindici anni per Dante? Io rispondo sempre che non ho il problema di interessarli a Dante, ma di interessarli a se stessi, alla loro vita. Se si interessano a sé, se capiscono e chiariscono le domande che hanno sulla loro vita, allora improvvisamente scoprono che Dante suggerisce delle risposte, ha delle ipotesi, che è possibile instaurare un dialogo con lui proprio come con un amico o un insegnante. Tuttavia c’è  bisogno di qualcuno che legga il viaggio di Dante in questo modo, altrimenti risulta un testo scritto settecento anni fa, incomprensibile per lessico, forma e contenuti.



Il suo viaggio con la Divina Commedia ha toccato numerose tappe tra cui un’esperienza televisiva. Che cosa cambia tra il raccontare Dante in classe, in televisione o davanti a una platea di spettatori? C’è qualcosa che accomuna tutti?

Sì, qualcosa che accomuna evidentemente c’è. Ma c’è anche una diversità enorme. Registrare in televisione è stata per me un’esperienza molto faticosa, soprattutto nelle prime puntate. Bisogna parlare tenendo conto dei tempi, dei secondi, dei minuti, dell’area in cui ci si può muovere, con i confini segnati per terra per non uscire dal campo delle telecamere. È infinitamente più facile in classe. Ma qualcosa non è cambiato, perché ho chiesto che ci fosse un pubblico vero davanti durante la registrazione delle puntate. Non sarei mai riuscito a leggere Dante al niente, al vuoto o a delle macchine che mi guardano. Ho sempre avuto davanti persone da guardare negli occhi e alle quali spiegare quello che volevo spiegare. Questa è sempre stata condizione imprescindibile, ci sono cose che non riesci a dire alle siede o al niente. Devi avere davanti delle persone che ti guardano, che reagiscono, che sorridono, perché si tratta di un dialogo. Questa forma rimane, perché anche a teatro è un dialogo.



Il continuo rimando alle stelle, al termine di ogni cantica, appare legato al desiderio, per l’etimologia stessa della parola (de-sidera: dalle stelle). Qual è il rapporto tra le stelle e il desiderio?

I primi tre libri usciti per la casa editrice Itaca li ho intitolati Dante poeta del desiderio proprio per questa ragione, perché penso che questo sia il messaggio fondamentale della Divina Commedia, ovvero che il cuore dell’uomo è fatto per cose grandi, desidera cose grandi. Quindi desidera l’infinito o, se vogliamo, desidera le stelle, cioè l’infinito. La parola desiderio è entusiasmante proprio perché non c’è desiderio che non sia tensione all’infinito, fosse anche il desiderio di bere un bicchier d’acqua. In questo senso è una proposta spettacolare, una di quelle che i ragazzi capiscono perfettamente: nel momento in cui vengono sfidati a guardare ogni cosa che desiderano perché in fondo ciò che desiderano sono le stelle, la felicità totale, allora ti capiscono. Ecco, la parola desiderio ha questa possibilità di evocare la natura vera del cuore dell’uomo, di ciascun uomo.

Davanti a certi errori e cambiamenti di piano nasce spesso l’idea di essere sbagliati e di essere determinati dall’errore stesso. Che cosa trasmette a tal proposito il percorso di Dante?

Per questo all’inizio dicevo che abbiamo bisogno di Dante, mai come oggi. Se nel leggere il viaggio ci si ferma all’Inferno, l’immagine che resta di Dante è quella di un presuntuoso che si è permesso di relegare all’inferno svariati personaggi, senza possibilità di appello. Invece, tutta la grandezza di Dante emerge dopo, nel Purgatorio e nel Paradiso. Prima di Pasqua sarà in libreria il secondo volume del mio commento alla Divina Commedia per Mondadori, dove cerco di mostrare che il messaggio di Dante è esattamente questo: nella vita dell’uomo l’ultima parola non è il male ma il perdono, una misericordia. Perciò ho sempre definito il Purgatorio “la cantica del perdono” e chi ne leggerà o ne sentirà parlare a teatro ne avrà una grande speranza.

(Angela Bonadimani)