È il momento più opportuno per leggere il libro di Philippe Nemo, Che cos’è l’Occidente (Rubbettino 2005). Lo studioso è stato uno tra i nouveaux philosophes, autore di numerosi saggi su Von Hayek e Lévinas. Nel suo studio mette in luce la morfogenesi culturale dell’Occidente, caratterizzata da cinque eventi decisivi: 1) l’importanza della città, della libertà di fronte alla legge e della strutturazione razionale del pensiero presso i Greci; 2) l’invenzione del diritto come forma ordinata del vivere civile accanto alla centrale nozione di humanitas presso i Romani; 3) la rivoluzione etico-escatologica apportata dalla Bibbia con la coscienza della direzione del tempo e della storia; 4) la “Rivoluzione papale” tra XI e XIII secolo con la valorizzazione della ragione, in grado di realizzare una sintesi tra Atene e Gerusalemme; 5) la promozione delle rivoluzioni democratiche con l’acquisizione storica del pluralismo come forma efficace per garantire lo sviluppo economico-sociale.
L’ Occidente nel suo Dna conserva, secondo Nemo, questi cinque stadi di sviluppo del tutto unici, che consentono di individuare una specificità non riscontrabile altrove. Il filosofo, alla fine del suo percorso teorico, propone un’Unione Occidentale non intesa come super-Stato, ma come libera confederazione di Stati, non ostile verso altri Stati o civiltà, caratterizzata da frontiere difese non in modo proiettivo-aggressivo, ma certamente attento a marcare la validità di un’identità comune e non tale da arrivare a una diserzione o a un vero e proprio suicidio come paventato da Federico Rampini nel suo ultimo libro (Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori).
Lo studio di Nemo ritorna d’attualità a causa della grave crisi mondiale, dovuta alla terribile guerra in Ucraina, che rischia di tracimare e incendiare tutto. C’è il rischio sempre più forte ed evidente di una contrapposizione tra due blocchi: l’Occidente e una sorta di Antioccidente. Uno scontro di valori, di civiltà, di vite che bisogna assolutamente disinnescare o perlomeno raffreddare. L’Unione Occidentale non sarebbe, oggi o domani, infatti, quella desiderata da Nemo, ma piuttosto un’unica entità militare-politica, strutturata secondo tre sfere o fasce di livello. La prima con la leadership indiscussa e indispensabile del Paese più forte militarmente, cioè gli Usa. La seconda o Anglosfera (Five Eyes) con la spinta propulsiva della Gran Bretagna, che avrebbe così molto da guadagnare dalla sua Brexit, e la terza con l’Ue, svantaggiata dal trovarsi con l’incendio alle porte, non avendo ancora una difesa comune adeguata e integrata.
Un’Unione Occidentale, perciò, gerarchica, frutto di un violento rimbalzo dovuto al protrarsi, all’aggravarsi o all’incancrenirsi della situazione in Ucraina, cosa che comporterebbe un probabile ridimensionamento della portata del progetto europeo ed europeista, ridotto a inevitabile sottoinsieme di un tutto più grande e più forte. La questione è ben chiara a Macron, ma non ad altri leader europei, che hanno toni di gran lunga più vicini a Biden. Mentre altri politici come Johnson mettono in luce un protagonismo che rimarca e sottolinea con decisione la posizione americana. Peraltro, in una situazione di perenne e pericolosa fibrillazione, con il succedersi di tensioni continue, in mancanza di una pace fredda o di una possibile tollerante coesistenza senza confronto costante, si avrebbe una restrizione del perimetro di libertà d’azione degli Stati e della loro sovranità con una compressione implicita e accettata delle libertà individuali. Il potere di controllo delle élites sui popoli diverrebbe necessariamente più tecnico, più esteso e verticale, per assicurare la compattezza occidentalista.
Che ne sarebbe del nostro Paese in un quadro così protettivo, ma certamente asfittico? Il genius loci italiano, ben colto e descritto da Dostoevskij, sarebbe mortificato: “Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo; l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano di essere i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e le presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale”.
L’occidentalismo vincente, infatti, nel suo spirito implicitamente e sotterraneamente secolarizzato, ma neopuritano woke e doppiamente predestinazionista a livello politico, porterebbe l’Italia, peraltro già ora schiacciata in un ruolo subalterno, ad essere inchiodata alla sua collocazione geografica. Nel nostro fianco est, il Kosovo è ancora caldo. E proprio dal Kosovo sono partiti nel recente passato centinaia di foreign fighters per unirsi all’Isis. Inoltre la Serbia di Vucic ha, recentemente, ricevuto armi dalla Cina. Dopo l’avventuristica guerra in Libia e successivamente alla madre di tutte le guerre (Iraq 2003), l’Italia si trova in un Mediterraneo sempre più pericoloso e difficile. Basti pensare al recente fronteggiarsi della portaerei Truman con un incrociatore russo e non solo. Il Nord Africa, inoltre, bolle sempre più e la mancanza di grano si farà sentire con l’aumento vertiginoso dei prezzi e delle migrazioni economiche. Il ruolo dell’Italia, perciò, sarà sempre più difficile e non tanto o non solo per colpa nostra. Un popolo come il nostro, caratterizzato da amore per il particolare e per l’universale, si vedrà forse ridimensionato, senza proiezione nella sua specificità di potenza dialogante e umanitaria, legata, in passato, ad un atlantismo fedele-moderato e oggi bypassata da un iperatlantismo poco critico.
Oltre che italiani sarà difficile anche essere cattolici, a livello socio-politico. La Chiesa, infatti, è più che occidentale e non restringe, per l’intrinseca natura che la contraddistingue, la sua azione. Il suo universalismo non è unilateralismo, né unanimismo o ossequio distratto al potere mondano, ma attenzione al bene di tutte le genti e del singolo, quel singolo. L’azione di chi considera Fratelli tutti non si ferma, perciò, a un continente o a una civiltà. Il suo annuncio di salvezza non ammette limiti e confini. Sono quelli, però, di chi vuole rinchiudere in un recinto le parole di Papa Francesco. Ieri si trovava necessario non considerare importanti le radici cristiane nel progetto europeo o si ignoravano le parole di San Giovanni Paolo II sull’Iraq. Oggi, si trascura, invece, in diversi campi, la saggezza evangelica del magistero del vescovo di Roma.
Perciò, in questo momento storico, oscurato da nubi dell’intelletto e tenebre spirituali, chi ha cuore l’umanità dell’uomo, di ogni uomo, soprattutto dell’innocente, vive tempi non facili. La chiusura irrealistica con obiettivi massimalisti prevale sulla mediazione e l’interventismo armato sempre più crescente mettono fuori gioco l’intelligenza diplomatica realisticamente fondata. I nostri tempi, insomma, sono quelli di un universalismo ferito e inchiodato.
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