“Bisogna che i cattolici italiani non trascurino il culto dei loro predecessori nella lotta per conservare alla nostra trasformata società i tesori della tradizione cristiana, e che abbiano essi stessi coscienza d’essere di tale tradizione e eredi, e custodi, e promotori, quasi anelli dell’aurea catena che da Cristo arriva ai tempi nostri e ai venturi si tende. Né si creda che la modesta storia provinciale di quei buoni che in varie città d’Italia nel secolo scorso ebbero coscienza del mondo nuovo e tentarono con umili mezzi e grande coraggio di scendere, armati del nome cattolico, nell’arringo sociale, non meriti di assurgere ai fasti della tradizione secolare della Chiesa; di tale tradizione, anche in piccole e borghesi vicende, quella modesta storia ebbe gli ideali, gli eroismi, ebbe la visione grande del popolo da salvare, della Chiesa da servire, del regno di Dio da difendere e dilatare; ebbe i suoi santi”.
Così scriveva nel 1954 il Sostituto Giovanni Battista Montini introducendo la biografia di Giuseppe Tovini redatta da Antonio Cistellini, dando corpo ad una straordinaria intuizione: che tra Otto e Novecento s’era affacciata alla ribalta della storia un’esperienza sociale e poi politica che Montini stesso avrebbe definito come un moto virtuoso “dall’amicizia all’azione e dall’azione all’amicizia”.
Quell’esperienza ha preso il nome di “movimento cattolico”.
Ebbene, che fine ha fatto tale esperienza? E soprattutto, perché da anni non se ne parla più, dopo che per almeno tre decenni, dagli anni Sessanta agli anni Novanta, essa è divenuta centrale di una “questione cattolica” che ha agitato il Paese e le sue migliori penne?
Va da sé che un contributo decisivo all’eclissi della questione l’ha dato la fine traumatica dell’esperienza politica cattolica che, dal Partito popolare alla Democrazia cristiana aveva catalizzato il senso di appartenenza e la partecipazione attiva di milioni di italiani. La diaspora politica dei cattolici che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni della nostra storia, non ha solo depotenziato l’identità sociale dei cattolici, ma l’ha resa superflua all’esperienza stessa della fede. L’ultimo tentativo di far rivivere, aggiornandola, quell’esperienza storica è ravvisabile forse in quel Movimento popolare che si è poi disciolto al sole e che meriterebbe un’indagine storica approfondita, giusto per comprenderne luci e ombre.
Non di poco conto sono stati i tre pontificati non italiani che dal 1978 ad oggi hanno guidato la Chiesa e che certo con più difficoltà potevano comprendere un’esperienza così nazionale come quella del movimento cattolico. Il risultato è stato il riassetto del baricentro identitario sulla Chiesa tout court, assai meno implicata in questioni socio-politiche particolari e sempre più orientata a temi generali e di portata planetaria. Ne è derivato certamente un più ampio e includente senso d’appartenenza, ma inevitabilmente tale identità s’è diluita in un generico credo, privato sempre più di ogni implicazione pratica, di ogni progettualità sociale, di ogni forma di relazione codificata.
Con la morte del movimento cattolico italiano, sembra essere scomparsa ogni significativa riflessione storiografica in proposito. Dopo una stagione gloriosa che ha visto opere straordinarie – e non solo in campo cattolico – impegnate a cercare le ragioni lontane dei successi di consenso e di potere della Democrazia cristiana, ormai di quella stagione non si parla più. Dal marxista Giorgio Candeloro ai cattolici Gabriele De Rosa, Fausto Fonzi, Giorgio Rumi, Pietro Borzomati, Silvio Tramontin, Francesco Malgeri, Francesco Traniello, Pietro Scoppola, Sergio Zaninelli, fino al laicissimo Giovanni Spadolini, per un trentennio la storiografia sul cattolicesimo sociale e politico ha vissuto una stagione straordinaria, culminata nel Dizionario del Movimento cattolico in Italia che Marietti pubblicò a metà degli anni Ottanta.
In quegli anni, e per un decennio circa, la speranza – o l’illusione – che si potesse rinverdire la stagione dell’impegno o – come si diceva allora – della ricomposizione dell’area cattolica attraverso il “Progetto culturale” del card. Camillo Ruini o le “Scuole di politica” che nella diocesi ambrosiana ruotavano intorno al card. Carlo Maria Martini, aveva messo radici profonde. Almeno fino al Convegno ecclesiale di Palermo del 1995. Ma già era iniziata un’altra stagione politica e la forma partito, onnivora di consensi e poverissima di memoria, s’era così modificata da rendere irriconoscibile e lontanissima nel tempo ogni esperienza che avesse radici nel Novecento. E allora – non bisogna dimenticarlo – la questione più urgente sembrava essere la cosiddetta “morte della patria”, per dirla con Galli Della Loggia. E forse l’ultimo tentativo serio di dare voce alla resilienza culturale di un’esperienza d’impegno che ormai appariva esangue, è proprio la rivista Liberal che Galli Della Loggia dirige con Giorgio Rumi e Ferdinando Adornato. Liberal nasce nel 1995, in concomitanza con il Convegno ecclesiale palermitano, animato – non a caso – proprio da Rumi e da Galli Della Loggia. Tentativo estremo di recuperare il meglio delle tre culture che avevano caratterizzato il Novecento – la cultura cattolica nella sua versione liberale, si potrebbe dire manzoniana, la cultura laica in senso stretto e la cultura socialista moderata; esperienza troppo sofisticata per un’Italia che stava ripiegando verso l’edonismo e il disimpegno, la radicalizzazione dello scontro nel clima di Tangentopoli e della secessione, la molecolarizzazione dell’esperienza sociale.
Così anche la storiografia sul movimento cattolico ha segnato il passo e con essa, forse, una storiografia cattolica propriamente detta. La fine, con la scomparsa dei relativi maestri, delle scuole storiografiche riconosciute, la chiusura di alcune grandi imprese editoriali, il diffondersi dell’auto-produzione di libri e saggi, la trasformazione delle editrici sopravvissute in officine tipografiche per la stampa di volumi a pagamento buoni per i concorsi universitari, il vizietto dell’instant book, hanno affossato anche quel poco che è sopravvissuto.
La migrazione degli storici dagli archivi e dalle carte agli studi televisivi ha fatto il resto, riducendo anche lo storico alla forma dell’intellettuale catodico. Tuttavia, l’intellettuale catodico, sembra vivere una sorta di maledizione: tutto il suo universo di pensiero, tutta la forza della sua parola, bruciano in pochi secondi con i raggi che proiettano la sua immagine. E il rischio sempre insito nel magistero dello storico, ovvero diventare dispensatore di patenti e di punti, gran cerimoniere di questo o di quel reame, pare essere divenuto una realtà.
Cittadinanza e modernità; sono state queste le due grandi ossessioni della storiografia cattolica sui cattolici. Nel primo caso si trattava di dimostrare come l’opposizione cattolica non fosse un’opposizione al processo risorgimentale e all’Italia, semmai alle modalità con cui tale processo era avvenuto e alle sue ricadute sociali. Nel secondo caso si trattava di dimostrare come i cattolici, nella stragrande maggioranza dei casi, non fossero reazionari e resistenti al processo di modernizzazione del Paese. Anche in questo caso si trattava di individuarne e possibilmente governarne i processi.
A ciò si deve aggiungere una terza preoccupazione: dimostrare la naturale accettazione cattolica della democrazia. Un processo di acclimatamento lungo e controverso in cui non sono assenti spinte centrifughe. Le nostalgie e le utopie, pur presenti e attive nella polemica, vengono tuttavia riassorbite da una stagione di impegno sociale che radicherà il movimento cattolico nella società e giustificherà così il suo successo politico. La conquista insomma del Paese reale è condizione necessaria per la successiva conquista del Paese legale.
Quanto lontana sia questa prospettiva dalla nostra contemporaneità, appare evidente. Nella coscienza collettiva, se non in una prospettiva nostalgica, il secolo breve sembra implodere nella sua brevità portando con sé la natura stessa della ricerca storica così come s’era costituita nella sua forma muratoriana e poi affinata nei vari passaggi ottocenteschi e poi novecenteschi. Una storia militante, nel senso nobile e ampio del termine, in cui lo storico si sentiva associato, anzi innalzato, al destino civile della nazione e forse dell’umanità.
Certo, si dirà che la fine della stagione delle ideologie ha accomunato nel medesimo destino ogni forma di esperienza socio-politica con relativa narrazione. Vero. Ma per la questione cattolica vi sono alcuni distinguo. Se nel pieno della stagione dell’impegno la storiografia sociale e la storiografia ecclesiale camminavano su binari affatto paralleli e quest’ultima aveva una funzione ancillare, di nicchia, oggi la situazione si è rovesciata. Non dovendo più rintracciare e giustificare le ragioni dell’autonomia del cosiddetto laicato cattolico, nel delicato equilibrio di fedeltà e responsabilità, il focus storiografico si è spostato decisamente sul piano dell’ecclesia, anzi, sul piano della personalità pontificale. Con una preoccupazione: misurare la modernità di ogni papa, stabilire le cesure, i salti storici. Promossi o bocciati i papi, almeno da Pacelli in poi, quel che resta sul campo, evidente e inconfutabile, è la sostanziale insignificanza dei cattolici nella storia civile del nostro Paese e forse l’inevitabile decadimento della parola stessa cattolico.