In Indian Creek. Un inverno da solo sulle Montagne Rocciose (Keller, 2022) Pete Fromm racconta la sua meravigliosa avventura di guardiano di uova di salmone, fuori dal mondo per sette lunghissimi mesi nel cuore delle Montagne Rocciose, con una potenza narrativa a tratti travolgente.
Perché un ragazzo di vent’anni che studia biologia deve andare a ficcarsi nel gelo dei quaranta sottozero, completamente isolato, senza possibilità di contatti col mondo esterno (se non raggiungendo un rifugio a molti chilometri, da percorrere naturalmente a piedi sprofondando nella neve) in uno spazio selvaggio abitato da cervi, mufloni, orsi, linci e puma?
In fondo non lo sa nemmeno lui: fatto è che ci si trova dentro e anche volendo non può più tirarsi indietro. Di sicuro non è preparato, non sa cosa sia vivere in terre estreme dentro una tenda dovendosi procurare tutto, dalla legna alla selvaggina, per vivere contando solo su sé stesso.
La solitudine è una terra abitata da pochi esseri strani. Non intendo quella subita, ma quella cercata e voluta, di cui si cibano quelle anime rare che si incantano davanti a tutto e, lasciando che sia il mondo di fuori a informare quello di dentro, assecondano le impronte che il Reale imprime nell’intimo. Le persone che amano la solitudine amano guardare. Non elaborano pensieri se non raramente e quando lo fanno è al termine di un’estetica semplicissima e profonda, al culmine di una meraviglia che non smette di essere carpita anche quando non sono più nelle lande selvagge, ma magari in città, dove basta scorgere un merlo mattutino tra le fronde di un albero.
Una volta ho letto di un vecchissimo guardiacaccia che ha trascorso buona parte della sua vita in solitudine tra le montagne affermare che “può stare da solo chi sa che solo non sei mai veramente”.
Pete Fromm si addentra e ci conduce in questo libro bellissimo, alla scoperta di un mondo duro e meraviglioso, che non fa sconti, che impone le sue leggi a cui occorre obbedire, che ti sovrasta in continuazione. E ci svela che in questo dinamismo cosmico elementare il soggetto non è soggiogato, ma è magicamente reso vivo.
Tutte le nostre energie umane, a me sembra, cercano instancabili tracce di una meravigliosa nostalgia che il contatto con la purezza del creato sa concedere generosamente, basta solo guardare, fissare a lungo, concentrarsi su un tratto preciso di meraviglia a tutti accessibile e lasciarsi conquistare e condurre fuori da sé, fuori da un io concentrico, e scoprirsi inebriati ed eterni.
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