Tornano in libreria, per Nino Aragno Editore, le Lettere disperse di Francesco Petrarca (a cura di E. Nota, introduzione, traduzione e note di U. Dotti): il volume raccoglie 80 missive di Francesco Petrarca non entrate nelle sillogi ufficiali delle Familiari, delle Senili e delle Sine nomine.

In queste Lettere disperse confluiscono tre serie: le cosiddette Varie, risalenti alle edizioni del XVI e poi del XIX secolo, per le quali punto di riferimento è l’edizione curata da Giuseppe Fracassetti (Epistolae de rebus familiaribus et Variae, Le Monnier, Florentiae 1863, volume III); le Miscellanee raccolte da E. H. Wilkins e G. Billanovich (The Miscellaneous Letters of Petrarch, “Speculum” XXXVI, 2, 1962); e poi l’edizione, per certi versi definitiva, delle Disperse a cura di A. Pancheri (Fondazione Pietro Bembo, Guanda, 1994), che accoglie anche due epistole scoperte successivamente (la Nudiustertius e l’Invitus ducor).



Questa edizione delle Disperse segue l’ordine cronologico delle epistole, come già faceva la raccolta delle Disperse di Pancheri, mentre la storica edizione ottocentesca di Fracassetti seguiva l’ordine alfabetico degli incipit. In questa edizione, al primo blocco di 65 lettere ne seguono cinque (indicate come 1A, 2B, 3C, 4D, 5E), di datazione molto incerta, se non impossibile. Seguono sei lettere, le cosiddette Viscontee, qui indicate con il numero romano, scritte da Petrarca nel periodo 1356-1359, per conto di Galeazzo e Bernabò Visconti, suoi signori milanesi negli anni del discusso soggiorno in terra lombarda. A conclusione della raccolta, sono collocati tre frammenti di lettere petrarchesche riportate dai suoi corrispondenti, e una porzione di quella che sarà la Sen. 5, 1 (indicata da Fracassetti come Var. 65), poi espunta da Petrarca nell’edizione ufficiale delle Senili stesse.



In Fam. 24, 13, 6-7 Petrarca parla delle Familiari appena concluse e della prossima raccolta delle Senili, e sembra inoltre accennare a un terzo volume di lettere extra ordinem: i più hanno inteso questo terzo liber come quello delle Sine nomine, un’idea che però il curatore del presente volume U. Dotti tende a escludere, identificando piuttosto questa terza silloge proprio come quella delle Varie o Disperse.

Quelle raccolte nel presente libro, dunque, non sono lettere completamente inedite, ma certo si tratta di testi petrarcheschi di difficile reperibilità, e molto meno noti delle Familiari e delle Senili: eppure, per ricostruire un’immagine a tutto tondo del poeta, le Lettere disperse rappresentano un patrimonio preziosissimo.



Petrarca, infatti, fu un uomo molto attento alla sua immagine pubblica, autentico “pierre di se stesso”, abilissimo nel costruire e consolidare la propria fama: addirittura scrisse una lunga epistola Posteritati, ossia “Ai posteri”, delineando un proprio ritratto che aveva molto di reale, ma anche molto di idealizzato.

Ai toni della lettera “Ai posteri” fa da controcanto quell’autoritratto che il poeta ci consegna con la Dispersa n. 63, indirizzata da Arquà a Francesco Bruni il 24 maggio 1371 (e probabilmente, secondo Dotti, prima stesura della Sen. 13, 13): qui Petrarca, fuori da ogni schema ideale, si rappresenta alle prese con certe difficoltà economiche che, se non nell’immediato, lo preoccupavano per quei pochi anni che ancora gli sarebbero restati da vivere. Il poeta prega quindi il destinatario, segretario apostolico, senza ricorrere alle parole di Cicerone né di Seneca, né di qualsiasi altro celebre autore o filosofo antico, ma semplicemente, ci verrebbe da dire, con il cuore il mano, di sollecitare il nuovo pontefice Gregorio XI, che sembra già al corrente della faccenda e ben disposto, di agire facendo quel che può e come può: una richiesta, questa, lasciata, con dignità di poeta, alla discrezione del beneficiante e alla stima che egli nutre per l’eventuale beneficiato: “In sostanza si tratta di questo: se dicessi che mi manca qualcosa per vivere con le rendite che ho, mentirei: esse bastano a un solo canonico; ma se dicessi di avere con me parecchie persone, e dunque più spese, dell’intero capitolo di cui faccio parte,  forse non mentirei. In che modo risolvere la faccenda non so. Ho tentato mille vie, ma senza successo, donde le mie continue preoccupazioni e quelle complicazioni che potranno forse sembrare meritevoli, ma che sono fastidiosissime” (pagina 541, § 5).

Petrarca era infatti  titolare, dal 1349, di un canonicato a Padova e di uno a Monselice; ma bisogna tener conto che già nel 1371 – o al più tardi nella primavera dell’anno successivo – andarono a vivere con lui ad Arquà la figlia Francesca con il marito e la piccola figlia Eletta.

Le Disperse, inoltre, testimoniano l’entusiasmo per l’impresa di Cola di Rienzo: le lettere dalla otto alla undici sono infatti indirizzate a questo personaggio (la ottava anche al popolo romano tutto), la cui impresa, per breve tempo, fece rinascere, anche se solo illusoriamente, la res publica romana.

La storiografia successiva ha ora celebrato, ora ridimensionato la figura di Cola; ma Petrarca considerò quell’esperienza importantissima e serissima, a costo di rotture molto dolorose, come quella con i Colonna, e, soprattutto, con il cardinal Giovanni, ovvero, come annota Diotti “con chi aveva costruito la base stessa del suo personale successo come poeta e come intellettuale dell’umanesimo” (xiv). Il tribuno, infatti, viene rappresentato come il salvatore del popolo, ma, soprattutto, come il valoroso castigatore della tirannide nobiliare.

La Dispersa n. 8 è, infatti, una epistola-orazione, incentrata sul tema della libertà, il bene più prezioso che l’uomo possa desiderare e salvaguardare. Ma per poterla apprezzare veramente, bisogna ricordare la schiavitù subita: e a questo punto l’eloquenza petrarchesca, rivolta ai Romani, dilaga e tracima: “Voi avete sinora servito e siete giaciuti sotto l’infame tirannide di pochi, e, ciò che supera ogni dolore e ogni vergogna, avete avuto come padroni gente avventizia e forestiera” (allusione, quest’ultima, agli Orsini e ai Colonna, presentati come un’accozzaglia di predoni venuti gli uni dalla valle di Spoleto, gli altri da un ceppo tedesco sul Reno).

Poi, una volta conclusa la breve esperienza di Cola, sembrò che Petrarca, dopo la calorosa accoglienza ricevuta a Firenze nel 1350, dovesse trasferirsi nella città di origine dei suoi genitori, magari con una cattedra nel neocostituito Studio. E invece, nel 1353, eccolo trasferirsi a Milano, città guidata con mano energica dall’arcivescovo Giovanni, e poi da Bernabò, signore dalla solida fama di tiranno violento e prepotente, che sarà consegnata ai posteri. L’atto venne considerato non solo uno sgarbo umano e letterario, nei confronti dei molti amici e appassionati estimatori fiorentini (Boccaccio, Francesco Nelli, Lapo di Castiglionchio e Zanobi da Strada), ma anche un atto di ostilità, una dichiarazione politica: Milano contro Firenze, la tirannide contro la libertà.

La polemica fu inevitabile, perché agli occhi degli amici fiorentini, fatta salva l’ammirazione per il poeta, il comportamento dell’uomo divenne inesplicabile, o sanzionabile: per qualcuno, soprattutto per Boccaccio, si trattò di un vero tradimento.

Il tema è trattato nelle Familiari, ma è dalle Disperse che veniamo a conoscenza di molti particolari altrimenti inghiottiti dalle sabbie del tempo: per esempio, nella Dispersa 18, indirizzata a Zanobi e ad altri amici, Francesco, nel giugno 1353, si giustifica affermando di aver preso dimora nella città lombarda non potendo resistere alle straordinarie insistenze del signore milanese: “Io che mi ero tante volte negato, e a testa alta, ai pontefici romani, e ai re di Francia e di Sicilia, non ho potuto negarmi a questo grandissimo fra gli italiani (scil. l’arcivescovo Giovanni Visconti) che m’ha pregato con una benevolenza davvero straordinaria. Di fronte a preghiere così inattese e pressanti rivoltemi da tanto personaggio sono rimasto sbalordito (…) Ciò che ritenevo impossibile concedere agli amici, lo concessi a lui, vinto dalla passione del suo pregare, e ho così sottomesso al gioco il mio collo non avvezzo. Tanto fu il fascino della libertà e della pace ch’egli mi promise pur sotto il suo imperio” (pagina 153, §§ 2-3).

Pur nell’ammissione di un cambio di rotta dalla direzione da tanto intrapresa, riecco far capolino quel giusto orgoglio di poeta e quel senso della propria unicità che saranno sempre propri di Petrarca.