Piccole donne è un classico della letteratura giovanile e già questo vale a confinarlo in un ambito ristretto e inferiore. Nonostante il “genere” vanti un’illustre tradizione e veri e propri capolavori, dalle favole di Andersen a Pinocchio di Collodi, ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, per citare solo i primi nomi che ci vengono alla mente, un pregiudizio, duro a morire, mette ancora in ombra tanti grandi libri e tanti grandi autori. Saper parlare ai bambini e ai ragazzi, invece, è un’impresa rara e difficile, consentita ad adulti liberi e autorevoli. Essere in sintonia con i più piccoli è essere in sintonia con il mondo, con le sue novità e i suoi stupori.



Di tale antico pregiudizio ha fatto le spese anche il romanzo di Louisa May Alcott, pubblicato nel 1868, all’indomani della sanguinosa Guerra di secessione americana. Vi vengono raccontate le esilaranti e insieme edificanti avventure delle quattro sorelle March, guidate nella loro crescita morale dalla madre, accorta e amorevole, che supplisce anche all’assenza del padre, lontano per la guerra.



Ci offre l’occasione di soffermarci sul romanzo l’ennesima versione cinematografica – pare sia la settima – uscita nelle nostre sale, per la regia di Greta Gerwig, che ha fatto il pieno di candidature all’Oscar. Regia impeccabile, scelta dei costumi accuratissima (alla fine l’unica statuetta), con un parterre di star, da Saoirse Ronan a Emma Watson a Meryl Streep. Peccato che con il libro abbia poco a che fare. Ce lo ha ricordato un puntuale articolo di Charlotte Allen, uscito sul Wall Street Journal il 7 febbraio scorso, intitolato God goes missing in “Little Women”.

Tutto il romanzo della Alcott è attraversato da espliciti riferimenti a un classico del cristianesimo riformato del Seicento, The Pilgrim’s Progress, del predicatore inglese John Bunyan: un romanzo allegorico che narra il viaggio di un cristiano dalla Città della Perdizione fino alla Città Celestiale, attraverso errori e prove da superare, com’è tipico dei romanzi di formazione. Ci ricorda la Allen che il libro di Bunyan fu, dopo la Bibbia, il testo più diffuso nelle comunità protestanti anglofone fino al secolo scorso. L’inizio di Piccole donne coglie le ragazze mentre “sferruzzano presso il fuoco, in una sera di dicembre mentre fuori, nel silenzio, nevica”. La madre legge loro una lettera del padre, scritta dal fronte. Egli rincuora le figlie, esortandole a non sprecare il tempo. Nell’attesa del suo ritorno, “si possono compiere tanti lavori, così che queste giornate dolorose non trascorrano inutilizzate”. Le ragazze potranno così combattere con coraggio “il nemico che ognuno di noi ha nel cuore”. La madre ricorda alle figlie quando con il padre giocavano al “Pellegrino” (evidente richiamo al libro di Bunyan); ora è il tempo di riprenderlo, ammonisce, perché “non si è mai troppo vecchi per questo gioco, perché in un modo o nell’altro lo si gioca per tutta la vita”.



Poche pagine dopo, il rimando al testo di Bunyan è ancora più riconoscibile: “abbiamo tutti i nostri fardelli da portare, la nostra strada è davanti a noi e il desiderio di felicità e di benessere è la guida che ci porta, attraverso affanni ed errori, alla pace che è la vera Città Celestiale”. Con la guida sicura della madre, che include anche la figura del marito, le giovani possono attraversare la Palude della Disperazione, per giungere alla meta: le ragazze, confortate, “chiusero la loro giornata cantando”.

Per il Natale, la signora March regala alle figlie un libriccino rilegato in rosso, che racconta “la meravigliosa, antica storia della più bella vita che mai fosse stata vissuta e sapeva che questa era la vera guida per ogni pellegrino che intraprende un lungo viaggio”. Si tratta, chiaramente, del Vangelo. La donna, secondo un’antica saggezza pedagogica, trasmette i valori essenziali della vita in una forma lieve, divertente, adatta al suo giovane uditorio: Jo la ringrazia, perché ci racconti “storie vere, non prediche!”. La madre incarna la figura di Aiuto (Help), che nel romanzo allegorico di Bunyan salva Cristiano dalla palude.

Le allusioni al Pilgrim’s Progress sopravvivevano ancora nella versione di Cukor del 1933, con una magistrale Katherine Hepburn nella parte di Jo; nel film più recente, a detta di Charlotte Allen, il tema religioso è sostituito dal femminismo. Allen cita un esempio di questa manipolazione. In un dialogo con la figlia maggiore, la madre afferma: “Io sono arrabbiata quasi tutti i giorni della mia vita”; ma viene omesso il seguito della conversazione, in cui la donna esorta la figlia ad affidare sé stessa e i suoi limiti alla “forza e alla tenerezza del Padre Celeste”.

Da anni imperversa, soprattutto nella cultura anglosassone, un filone della critica letteraria improntata agli “studi di genere” (gender studies), volti a indagare i significati culturali della sessualità e dell’identità di genere, secondo la prospettiva del multiculturalismo e del femminismo. In questa visione, il matrimonio è una forma di morte. Il film di Greta Gerwig sostituisce la dimensione religiosa del romanzo con la spinta verso l’ambizione e la carriera, insistendo soprattutto sulla determinazione di Jo di diventare una scrittrice.

In tempi di Metoo e di politically correct forse non ci si poteva aspettare altro. Beninteso, la lettura della Gerwig è legittima. Ma almeno si sappia che il romanzo di Louisa May Alcott è un’altra cosa.