Per avvicinarsi nella maniera giusta al voluminoso libro di Thomas Piketty “Capitale e ideologia” bisogna iniziare leggendo le ultime righe, quelle che si trovano a pag. 1176: “Questo libro – scrive Piketty – ha un solo scopo fondamentale: contribuire alla riappropriazione da parte dei cittadini, del sapere economico e storico. Non importa se il lettore non condividerà alcune delle mie conclusioni, perché il mio compito è soprattutto quello di aprire un dibattito, e non quello di chiuderlo. Se questo lavoro susciterà nuove domande e permetterà l’acquisizione di nuove conoscenze, il mio obiettivo sarà pienamente raggiunto”.
In questi termini l’analisi dell’economista francese, che ha venduto oltre due milioni e mezzo di copie del suo precedente libro “Il capitale nel XXI secolo”, costituisce una miniera di informazioni, un avvincente percorso di analisi storica ed economica dell’evoluzione dei rapporti sociali in una prospettiva globale, ma con particolare riguardo ai grandi Paesi come Stati Uniti, Cina, India e naturalmente la Francia.
Il tema di fondo è quello delle disuguaglianze, una prospettiva che sembra unire le diverse realtà, sia in un’ottica storica, sia nell’osservazione delle condizioni attuali. Il libro è stato scritto e consegnato alle stampa ovviamente prima della grande pandemia globale, ma vi sono tutte le ragioni per credere che la nuova emergenza globale abbia ancora più accentuato le disuguaglianze.
L’analisi di Piketty è particolarmente approfondita sia nell’analizzare le differenze talvolta abissali tra i livelli di vita nelle diverse aree del mondo, sia nel valutare la dimensione, comunque vasta, delle disuguaglianze all’interno dei singoli Paesi. In entrambi i casi con una netta tendenza alla crescita.
Le cause sono ovviamente, secondo Piketty, da ricercare nell’ipercapitalismo dominante che trova nel neoproprietarismo la sua giustificazione ideologica. Le soluzioni, almeno a livello di ipotesi, vengono individuate in quello che viene chiamato socialismo partecipativo nelle politiche economiche e fiscali e nell’istituzione di una struttura democratica globale capace di avviare un federalismo dell’equità. Il tutto unito a una tassazione fortemente progressiva con imposte patrimoniali e di successione al limite dell’esproprio della ricchezza.
Se l’analisi del libro appare ricca di spunti di interesse anche a livello storico oltre che di analisi sociale, quando si passa alle proposte ci si addentra, come promette peraltro il titolo del libro, nella foresta delle ideologie. Il grande sforzo di combattere contro le disuguaglianze, indubbiamente encomiabile, porta a sottovalutare, se non a dimenticare, le conseguenze dirette o indirette delle politiche applicate. Significativo l’attacco radicale al diritto di proprietà per sostituirlo con una generica condivisione sociale. Ma una cosa è se le formule di sharing sono scelte in maniera autonoma e volontaria, come avviene ora per motivi di convenienza o di opportunità, un’altra cosa se una pianificazione centralizzata obbliga alla condivisione limitando la libertà delle persone.
In questa prospettiva il fine non giustifica i mezzi. L’obiettivo dell’uguaglianza avrebbe effetti pericolosi se venisse perseguito soffocando non solo e non tanto la proprietà privata, quanto la libera iniziativa, le scelte autonome e responsabili spinte dalle volontà di migliorare il proprio tenore di vita. In pratica, come diceva il compianto premier svedese Olof Palme, non bisogna combattere la ricchezza, ma sconfiggere la povertà. E peraltro, in un momento di grandi difficoltà economiche come l’attuale, è molto forte il rischio di uno statalismo incapace di valorizzare i talenti dei singoli e delle comunità.
Per questo il libro di Piketty è un’ottima base di discussione: meglio se per contestare le utopie delle rivoluzioni sociali che possono trovare consistenza solo nelle pagine di un libro il cui maggior valore è quello di essere ricco di dati come un’enciclopedia.