“Come si spiega che essere un poeta del Novecento significhi allenarsi a ogni sorta di pessimismo, sarcasmo, amarezza, dubbio?” Così Czeslaw Milosz esordiva nella prima delle sue lezioni tenute nell’anno accademico 1981-82 all’università di Harward dopo il suo fresco Nobel e che troviamo in La testimonianza della poesia, pubblicato da Adelphi nel 2013. Lo stesso poeta afferma che non c’è grande differenza tra il primo e il secondo scorcio di secolo; anzi rincara la dose, dicendo che “la particolarità degli ultimi decenni consiste semmai nella generalizzazione degli atteggiamenti negativi, tanto che al riguardo l’uomo della strada ormai non è da meno del poeta”.



È molto interessante seguire il poeta polacco nella sua escursione storica sulla direzione presa da tanta parte della poesia contemporanea, nella quale egli coglie il prevalere di un tono minore, ma, rincarando questa sorta di diagnosi, afferma anche che “già acquisendo coscienza che la poesia novecentesca testimonia gravi disturbi nella nostra percezione del mondo, facciamo un primo passo verso l’autoterapia”. Questa malattia è stata ereditata dal simbolismo, che a un certo punto ha creduto che la poesia non dovesse parlare del mondo, ma che esistesse in alternativa al mondo e alla fine è andata rifugiandosi nell’ambito del soggettivismo, in una specie di mondo tutto suo in cui prevalevano preoccupazioni estetiche di natura individuale.



Quanto è ancora vero di quello che Czeslaw Milosz dice in quell’anno nelle aule di Harward? Che cosa ne è stato di una poesia che, secondo un altro grande polacco, cugino del premio Nobel, Oscar Milosz altro non sarebbe se non un “inseguimento appassionato del Reale?”

Come ho già avuto occasione di dire in alcuni miei precedenti interventi, in questi anni si va consolidando, seppure in modo ancora sotterraneo e spesso osteggiato dall’establishment culturale che del soggettivismo si nutre e sul nichilismo prospera, una poesia in salute che di “un mai appagato desiderio di mimesi, vale a dire di fedeltà al particolare” continua a vivere e che “nell’atto stesso di dare un nome alle cose presuppone la fede nella loro esistenza, e dunque in un mondo vero, checché ne dica Nietzsche”, come dice ancora Czeslaw Milosz. Che ha poi ragioni da vendere nel ritenere che “il lamento, tanto diffuso oggi in poesia” forse è “una prova del suo dono profetico e una risposta alla situazione disperata in cui si trova l’umanità”.



Ho chiesto ad alcuni amici poeti e insegnanti di riflettere e scrivere sullo stato della poesia e della scuola oggi in Italia: ne è uscito un grande libro che si intitolerà Il posto dello sguardo. Scuola e poesia tra complicità e tradimenti, e che verrà stampato dopo l’estate dall’editrice Puntoacapo. Ne parleremo naturalmente a tempo debito, ma mi è parso di cogliere in molte delle testimonianze degli amici poeti che hanno accettato l’invito che tanto la scuola quanto la poesia devono riappropriarsi del loro compito di  inseguire in maniera appassionata il reale. Il libro contiene anche una sezione antologica in cui sono stati inseriti testi di poeti contemporanei esemplari proprio di questa riassunzione di responsabilità della poesia anche nel percorso educativo. Ce n’è uno, ad esempio, di Luigi Cannone, contenuto in La resa (Puntoacapo 2014), che recita così:

“Prima che la ragione s’incolli al mio viso/ apro tutti i regali che ho avuto./ C’è una donna che con la mano mi chiama/ e un uomo insonne che guarda le stelle./ Oltre il riparo dei pini gioco a palla insieme ai miei figli/ e da qualche parte in me un libero spazio/ sfiorato da leve segrete,/ un puro esistere all’assalto che viene.”

Ecco, in questa poesia siamo messi nello sguardo da cui muove il poeta. Prima di fare i conti, prima di essere ragionevoli e tirare un bilancio del dare e dell’avere, occorre essere razionali. Cioè accogliere la realtà per quello che è: un dato, un regalo, appunto. E il poeta apre questi regali che si è trovato tra le mani e ce li confida come solo si può fare con qualcuno che è complice, con qualcuno fatto della stessa sostanza di cui è fatto lui. Così ci troviamo davanti alla scena di una donna che chiama un uomo con un gesto e di un uomo che guarda le stelle. Non una scena indistinta, come potremmo pensare in  modo un po’ superficiale: è quella donna, è quell’uomo, sono quei regali che lui ha avuto per sé e, dietro la loro apparente indecifrabilità, ciascuno di noi può riconoscere scene personalissime e diverse che ci sono apparse come misteri preziosi che qualcuno ci ha consegnato. Lo stupore del vivere è tutto racchiuso in pochi battiti e ritorna nell’altra immagine, semplice e scarna: un gioco a palla con i figli. Ma ciò avviene oltre il riparo dei pini, quasi a dire nella più totale apertura, nella più completa docilità all’accadere, nella disponibilità a lasciarsi ferire dal gioco serio della vita. Ed è in questo abbandono che dentro di sé il poeta avverte chissà quale segreta mano fare sempre più spazio all’evento improvviso che l’esistenza intera si rivela essere. Il puro esistere dell’ultimo verso è diametralmente opposto alla ragione, intesa come ragionevolezza, del primo verso: non il calcolo, la somma dei debiti e dei crediti, non il dubbio è l’opera dell’uomo, ma piuttosto il suo compito e il suo destino diventano puro accogliere.

Come voleva Milosz, la poesia qui afferma il primato del dato esperienziale e sta in questo anche la sua forte valenza educativa: tutto ciò che accade intorno all’uomo segnala la realtà come luogo di evidenza della verità; in questa incarnazione la poesia trova il suo metodo e la sua sostanza. Contro tutti i nichilismi, la poesia si attesta come un luogo della conoscenza: è un attraversamento della condizione umana tutto giocato nell’istante, nell’attimo in cui la realtà accade chiamandoci in causa; ci immette in un vortice di cose che riconosciamo come nostre o che alle nostre rimandano. E la poesia resta tra le cose come una di loro, non affermando altro che la vita e l’esperienza del limite e del desiderio del suo superamento che sono il paese vero che la vita ci ha regalato.

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