Verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso la sinistra americana incomincia a distogliere lo sguardo dalle classi sociali più svantaggiate per concentrarsi sempre di più sui diritti civili e la tutela degli interessi di un’ampia varietà di gruppi percepiti come marginalizzati: le donne, i neri, gli immigrati, la comunità Lgbt e simili, avviando una vera e propria battaglia sul linguaggio, nel tentativo di bandire parole che potessero in qualche modo evocare una qualsiasi forma di discriminazione. È l’inizio del cosiddetto “politicamente corretto”, fenomeno che ha trovato nuova linfa con l’avvento dei social, fino ad assumere una veste assai più aggressiva e pericolosa, la cosiddetta “cancel culture”, diffusa ormai non soltanto a sinistra e non soltanto in America. In estrema sintesi si potrebbe dire che siamo di fronte a un uso isterico, vandalico del tema dell’identità.
L’appartenenza a un qualsiasi gruppo sembra che non abbia altro collante che la rabbia di chi si sente sotto attacco, offeso, discriminato. Una rivendicazione tronfia d’identità che non si preoccupa minimamente di coltivarsi e rendersi plausibile con atteggiamenti e argomenti ragionevoli, giustificabili e magari condivisibili. L’espressione di una volontà che non conosce altro limite che se stessa. Ma come è potuto accadere tutto questo?
Alla radice stanno sicuramente le obiettive discriminazioni di cui in passato sono rimasti vittime i gruppi sociali di cui si diceva sopra. Sarebbe semplicemente disonesto disconoscerle. Oltretutto, come diceva Walter Benjamin, è sempre opportuno fare il contropelo alla storia, mostrandone il lato oscuro, le ambiguità e le tragedie che spesso si nascondono dietro i suoi monumenti.
Ma la cancel culture non fa nulla di tutto questo; si esprime semplicemente in modo vandalico nei confronti del passato, come se esso potesse essere restituito a una e a una sola dimensione. Una chiusura fanatica e manichea, utile a eccitare gli animi di coloro che sono “dentro”, ma lontana dalla realtà e dalla verità. I principali presupposti di questa chiusura vanno cercati a mio avviso nel clima culturale che verso la fine degli anni Settanta inizio anni Ottanta del secolo scorso viene denunciato da Christopher Lasch come “cultura del narcisismo” e da Alasdair MacIntyre come “emotivismo” morale.
Il propellente ideale è rappresentato invece dagli odierni social media, il vero braccio armato della cancel culture. Se il narcisismo, unitamente a crescenti aspettative terapeutiche e a una buona dose di risentimento sono i tratti distintivi delle nostre società; se il sommo criterio di giudizio morale diventa ciò che io sento come buono e giusto; se da un punto di vista sociale conta soprattutto la soddisfazione delle “esigenze emotive” del cittadino/paziente, ovvio che in tale contesto diventi difficile far valere idee universalistiche e interessi generali.
A sinistra e a destra prevale insomma una sorta di emotivismo identitario, che esaspera quello che per me è il brodo di coltura ideale della cancel culture e uno dei principali problemi del nostro tempo: il progressivo accantonamento dell’idea di verità. Se la validità delle nostre posizioni dipende dai like che esse ricevono sui social, anziché dai buoni argomenti razionali che siamo in grado di addurre a loro favore, sarà molto difficile arginare la cancel culture.
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