“Ho passato un paio di notti, dopo l’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, in compagnia di un libro prezioso e illuminante, costato la vita alla sua autrice: La Russia di Putin (2004) di Anna Politkovskaja”. Lo scriveva il 10 aprile 2022 Emanuele Trevi sul Corriere della Sera, annoverando l’autrice tra i classici russi. La lettura notturna riporta all’epoca del samizdat, quando i libri proibiti giravano clandestinamente con la raccomandazione al lettore: “solo per una notte”. Ora la situazione non è diversa, tanto che la Politkovskaja parlava, già nel 2004, del ritorno in grande stile dell’homo sovieticus. “Il nostro cammino va a ritroso tra la stagnazione di Breznev e il tutto è possibile di Stalin. Terribile…”.
Maestra nel giornalismo d’inchiesta, una delle autrici russe più note in occidente, Politkovskaja non pubblica un saggio: “Le analisi politiche le fanno i politologi. Io sono un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di qualsiasi città della Russia. Il mio è un libro di appunti appassionati a margine di come si vive oggi in Russia”. Cronista instancabile, sempre in prima linea per cercare di raccontare una versione non ideologica della realtà neo-sovietica, Politkovskaja compone un collage policromatico fatto di interviste, inchieste, pezzi di costume, storie di spie e sommergibilisti, letterati alcolizzati, cronache di crimini di guerra, di azioni terroristiche e altrettanto terroristiche azioni di anti-terrorismo; storie di corruzione e degrado delle istituzioni al limite della fantascienza, la cui sintesi – ammesso che esista – oggi è sotto gli occhi del mondo intero. L’attenzione all’esercito: soldati, madri di soldati, ufficiali, ammiragli, spie, eroi e criminali di guerra, è una costante del racconto della giornalista, che informa così il lettore della militarizzazione della Russia, una società ridotta a caserma, istituzione chiusa che a stento si distingue da un carcere senza regole.
Nelle caserme russe ogni anno 500 ragazzi muoiono durante il servizio militare, lontani dai combattimenti, senza che alle famiglie arrivi una riga di spiegazione e di cordoglio: un intero battaglione sacrificato sull’altare di un nichilismo guerresco, per il quale un’intera nazione esiste solo come “carne da cannone”. In alcune pagine, Politkovskaja raggiunge i vertici di Balkan Baroque, l’inascoltata performance di Marina Abramovic (Venezia 1997), contro la guerra dei Balcani e contro tutte le guerre.
Nata a New York nel 1958 – quando Solzenicyn pubblicava il primo volume di Arcipelago Gulag – da genitori entrambi diplomatici sovietici di origine ucraina, Politkovskaja rifiuta l’etichetta di oppositore politico: “Sono una cittadina russa. Una moscovita quarantacinquenne che ha potuto osservare l’Unione Sovietica all’apice della sua putrefazione comunista, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e non vuole ricascarci”. Nell’elezione di Putin, “figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese”, vede la débâcle delle speranze di rinnovamento che il popolo russo rinvia, di epoca in epoca, verso un traguardo che ancora oggi appare inarrivabile. La sua contrarietà al sistema non è dettata da una pregiudiziale ideologica, sorge dall’osservazione, dalla cronaca delle stragi del teatro Dubrovka e della scuola di Beslan, della prima e della seconda guerra cecena, del primo e (dell’inizio) del secondo mandato di Putin, connotati dall’ignavia verso la riforma dell’esercito, nei confronti della corruzione, dall’asservimento – consenziente – della magistratura e della Chiesa ortodossa, e da un diffuso nichilismo quotidiano, che nega ogni valore alla vita delle persone comuni.
In molti hanno cercato nel romanzo Il sosia di Dostoevskij una chiave di lettura per comprendere la psicologia del tiranno Putin. Politkovskaja non indugia in analisi psicologiche o letterarie, ma esprime con la sua prosa pulita la convinzione che il despota, per quanto narciso lo si voglia pensare (è la tesi che si ricava dalla lettura del Sosia), non sia il banale prodotto di sé stesso, ma il risultato di un processo politico. Senza la dabbenaggine dei leader politici europei e statunitensi e senza l’acquiescenza e la paura della società russa, l’anomalia del fenomeno Putin non avrebbe assunto le dimensioni attuali.
Ma il successo di Putin non ha solo ragioni negative. Politkovskaja mette in primo piano il dato politico che assegna a Putin, al netto dei brogli, la maggioranza assoluta dell’elettorato. È un dato che l’autrice legge come un “innamoramento adolescenziale” nei confronti del Leader da parte di oltre il 50% della società russa. Un super investimento affettivo sul capo supremo (Führer, in tedesco) che rivela un anelito di riscatto e di rivincita fissato nel libro dalle inequivocabili parole di Tania, un’amica di vecchia data, una nuova russa, una donna di successo alla cui ascesa Politkovskaja regala alcune tra le pagine più belle del libro: “Tu sei contro Putin, io a favore. Io lo sento come un fratello: è un pragmatico insaziabile come me, un umiliato e offeso dalla vita precedente che ora si vendica del passato”. Una citazione che esalta la cifra stilistica dell’autrice: far parlare la realtà anche quando è controversa, difficile da accettare e non rientra in uno schema ideologico precostituito.
Anna Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre 2006, giorno del cinquantaquattresimo compleanno di Putin.
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