Parlare oggi di Europa significa soprattutto mettere a tema il giusto assetto delle relazioni tra le entità che la costituiscono. Più ancora che le forme organizzative delle strutture politiche di coordinamento o i lineamenti giuridici ed etici dell’ordine complessivo che la ricomprende, i veri nervi scoperti che fanno discutere sono quelli dei rapporti che gli Stati alimentano entrando in contatto, quindi anche nel loro scontrarsi per negoziare la gestione di interessi tutt’altro che universalmente sinfonici. Da lungo tempo la realtà europea si è configurata come un mosaico di Stati territoriali tra loro concatenati. E alla base di questo delicato assemblaggio, che si è cercato di dilatare verso est dopo il disfacimento del blocco sovietico, si colloca risolutamente quel modello vincente di Stato moderno che, in modo sempre più netto dall’Ottocento in poi, si è identificato con lo Stato-nazione.



Dobbiamo però riflettere per prima cosa sul fatto che la simbiosi tra gli ordinamenti del governo politico organizzato nella rete dei poteri degli Stati, da una parte, e dall’altra la mappa, molto più intrecciata, eterogenea e confusa, delle identità nazionali si presenta, storicamente parlando, in modi completamente diversi da quelli di una alleanza obbligata e indistruttibile. Strutturazione territoriale dei poteri pubblici e arcipelago variegato delle nazioni sono piani di realtà ben diversi. Nel concreto della vita sociale, nel mondo di oggi così come avveniva nel passato che ci siamo lasciati alle spalle, questi due poli possono anche rimanere disgiunti e svilupparsi secondo dinamiche che non sono esentate dal rischio di entrare in aspro conflitto. Sono esistiti ed esistono tuttora Stati che non abbracciano una realtà nazionale veramente compatta e omogenea (merce, del resto, molto rara, quasi miticamente utopica, sulla scena politica generale), ma ne inglobano di diverse, nella loro estensione totale o per frammenti, disponendosi in questo caso trasversalmente rispetto alla geografia delle collettività a cui possiamo attribuire l’etichetta approssimativa di “nazione”.



A ben guardare, neppure le realtà dei più antichi e robusti Stati “nazionali”, consolidatisi nella loro ossatura solo a partire dalla fine del Medioevo, coincidono con un granitico blocco solidale: non sono “una cosa sola” i vari ceppi della pluralistica monarchia spagnola, i molti ambiti regionali conglomerati nello spazio francese (oil contro oc era un semplice risvolto di altre profonde dicotomie), i diversi domini assorbiti sotto lo scettro del Regno Unito delle isole inglesi (e a maggior ragione il discorso vale per le più magmatiche realtà degli Stati nazionali di nascita ben più giovane, come Italia e Germania, o per le instabili e per certi versi anche molto artificiali partizioni statali del mondo centroeuropeo e dell’Europa slava). In senso inverso, nella cornice dell’Occidente si sono modellate entità di popoli che si sono riconosciuti, almeno a livello di élite e già in epoche a volte molte remote, in una unitarietà di radici e, cosa più decisiva ancora, nella condivisione di un destino unitario, senza per questo sollecitare necessariamente il travaso della loro unità culturale, linguistica, religiosa o di “civiltà” negli schemi istituzionalmente definiti di una struttura di controllo direttivo centralizzata e uniformante.



I popoli e le nazioni hanno il loro volto autonomo, le loro basi e i loro punti di convergenza da salvaguardare, potenzialmente distinti da quelli degli Stati. Gli Stati, a loro volta, non sono emanazione sclerotizzata, irriformabile ed eterna, in cui si incarna una volta per tutte, sacralizzandosi, lo Spirito hegeliano di una “Ragione” che muove dittatorialmente la storia del mondo, senza lasciare nessun margine di manovra alla libertà e alle strategie degli attori umani in concorso, spesso anche in lotta, tra di loro. Anche gli Stati si possono rimodellare. La loro orbita non può coincidere con quella di una moderna “religione civile” secolarizzata, che pretenda di trasferire nell’ordine del governo umano della città terrestre le stesse ambizioni di verità e di autorità indiscutibili, tipiche di ogni proiezione mondana dell’ordine divino. Queste ambizioni sregolate di strapotere la mitologia dello Stato moderno di tipo occidentale le ha in effetti avallate, alterando il bilanciamento dualistico di un sano equilibrio tra ragioni del potere e diritti della coscienza degli individui. Ma la storia recente, in particolare quella dell’ultimo secolo, è lastricata delle deplorevoli miserie in cui si è arenato il “dispotismo di ritorno” della politicità, giunta ai suoi traguardi più maturi di sviluppo.

Ai giorni nostri, è quanto mai salutare far riemergere in primo piano la dimensione assolutamente storica, cioè provvisoria, sperimentale e sempre modificabile, in cui deve essere mantenuta la configurazione dei poteri degli Stati nel teatro dell’Occidente europeo (anche perché tale teatro è stato la grande incubatrice, il laboratorio primario di costruzione della nostra forma più progredita, razionalmente avanzata, di organizzazione del governo della vita collettiva, che poi in vari modi, e con esiti diversi, abbiamo “esportato” verso le altre aree di civiltà del pianeta).
Ma la de-sacralizzazione delle forme del potere statale, per non essere faziosa e puramente distruttiva, si deve accompagnare al riconoscimento che anche le realtà dei popoli, delle civiltà, e di quelle identità più fortemente caratterizzate in senso unitario, che si radicano in un ambito di vita più circoscritto e localizzato, a cui tradizionalmente diamo il nome di “nazioni”, sono, in un certo senso, “prodotti” storici. Le collettività umane non sono isole separate, messe al riparo dal recinto di muraglie che le distinguano in modo asetticamente impermeabile, secondo una logica di spartizione escludente. Sono, piuttosto, ambiti di raccordo in cui confluiscono, sul filo del tempo, apporti demografici, retaggi ereditari, visioni del mondo e progetti di futuro, stili di vita e pratiche materiali che vengono ad amalgamarsi, si fondono tra loro e ridisegnano senza sosta il tessuto ramificato delle identità storiche. Non esistono le “razze” intese come entità biologiche geneticamente differenziate, chiuse nella loro autosufficienza e ostili per principio alla interconnessione. I popoli e le nazioni, come gli Stati che vi si sovrappongono e li governano, sono punti di incrocio tra i diversi che cominciano a percorrere un tratto di cammino in comune. Ma tutto si trasforma nel tempo. Il paesaggio umano è il frutto di un accumulo che si stratifica rimescolando incessantemente ingredienti di provenienza e natura irriducibili a una matrice unica, fissata su di un asse immodificabile, soffocata dentro argini rigidamente pianificati. La storia dell’Occidente è stata, invece, figlia della mobilità: ha sempre coltivato, anche a costo di subirlo come imposizione coatta, l’incastro del molteplice, la logica degli scambi tutt’altro che sempre paritari e graditi fra ciò che fin dalle origini è meticcio, articolato al plurale, magari anche espressione del primato di un avversario che poi si fa conoscere meglio e diventa capace di integrare in sé il nemico nello stesso momento in cui, in altre circostanze più favorevoli all’osmosi, viene “addomesticato” dallo sconfitto, costretto a fare spazio al peso ingombrante di una realtà subordinata da legare al proprio dominio egemonico.

(1 – continua)