Ma davvero nella nostra epoca post-contemporanea sono finite le ideologie? Sono cioè tramontate per sempre quelle “veline” fabbricate dall’uomo che a seconda delle circostanze offrono una immagine capovolta della realtà e pretendono di orientare le masse nella direzione da loro indicata? Davvero sarebbero state sconfitte, le ideologie, dalla democratizzazione del rapporto con la realtà, per cui la vediamo meglio con la rete e i social, proprio perché mettiamo a fuoco quello che ci pare e non quello che “ideologia comanda”?
Nella scuola, per esempio, taluni pregiudizi storici, filosofici, scientifici, per cui si possa parlare, chessò, di Medioevo senza tirare in ballo il pregiudizio della sua arretratezza o di un Galileo senza accusare la Chiesa di ogni empietà, sarebbero per sempre superati da una maggiore circolazione di informazioni e fonti critiche? Ne dubitiamo assai. Vero è tuttavia che le carte, a proposito di ideologia e realtà, si sono profondamente modificate da un ventennio a questa parte. Il ventennio è quello che va dal crollo delle Twin Towers del 2001 alla fine della occupazione americana dell’Afghanistan in corso in questo stralcio di 2021. Anni segnati dalla crisi delle certezze sulla fine della storia (era la tesi di Fukuyama) e da un fenomeno molto più profondo di cui ha parlato al Meeting di Rimini il teorico della politica Joshua Mitchell, della Georgetown University.
Il professore ha definito l’attuale clima culturale-politico che si respira in Occidente come contrassegnato dal “senso di colpa” per gli errori o orrori che si sarebbero commessi nel passato e dalla propensione a liberarsene rompendo i vincoli tradizionali che legano gli uomini alla propria storia. In effetti, anche a uno sguardo superficiale questa tesi sembra corredata da ottimi argomenti. Li possiamo raggruppare in tre nuclei: l’ambiente, l’America, la storia del Novecento.
Non è possibile, oggi, discutere di ambiente, di energie rinnovabili, di cura del creato (nella prospettiva per esempio della Laudato si’), se non si fa il mea culpa rispetto alla distruzione dell’ambiente di cui saremmo protagonisti. L’ambiente non è per molti, per tanti, il bel mare che abbiamo preservato, la natura che abbiamo contenuto e convogliato, i cieli che abbiamo conquistato, ma (e non senza qualche ragione, non c’è dubbio!) la deturpazione del paesaggio, l’inquinamento degli oceani, la morte delle balene, il riscaldamento globale. Non ci si sofferma a riflettere o a calcolare che in altre epoche era magari anche peggio.
Il secondo tema è l’America che riassume tutti i mali dell’Occidente. La distruzione dei simboli della cultura americana, dalle statue di Colombo, che ebbe la mala sorte (si fa per dire!) di scoprirla, alle immagini delle sconfitte militari ricorrenti in questi giorni (fuga da Kabul 2021 uguale a fuga da Saigon 1975) ci presentano un conto amaro: l’America non ci affascina più. Si sbagliava probabilmente quando si idolatrava il mito americano (il successo, il petrolio, il progressismo, la libertà sessuale) e si sbaglia oggi quando ne si fa il ricettacolo di ogni recondito senso di colpa. In fondo ci ha fatto comodo collocarci sotto l’ombrello protettivo della Nato, a preponderante guida americana, ma la giusta critica delle sue strategie deve coincidere, siamo indotti a considerare, con il ripudio del fenomeno della colonizzazione di cui nei secoli è stato protagonista tutto l’Occidente, ma che nei suoi esiti estremi addossiamo agli Usa. Lo spettacolo offerto dalla decolonizzazione, compresa la nascita e diffusione dell’islam radicale, non è tuttavia meno sconfortante.
Infine emerge, basta aprire un manuale di storia tra i più recenti, un senso di colpa per tutto ciò che di perverso (guerre, totalitarismi, lager) la civiltà occidentale ha mostrato nel corso del Novecento. In questo caso il processo di spostamento dell’accento ideologico è più sottile. Il male assoluto da cui liberarsi, e da cui redimersi, consisterebbe non tanto nella dimenticanza del fattore umano e della sua creaturalità, ma nel cedimento della tradizione cristiana al fascismo e al nazismo (del comunismo non si parla più). Con l’accusa di “fascista” oggi, per esempio, non si accusa tanto il tale o talaltro di fare parte di un movimento che è morto, sepolto e impossibile da resuscitare, ma si intende colpevolizzare qualcuno alludendo a qualche suo misfatto (come d’altra parte si tacciava, qualche tempo fa, l’avversario di essere un “comunista”).
Il risultato di questa situazione, per farla breve, è che anziché ritrovare il piano della Grazia che perdona, si cerca di alleviare il proprio senso di colpa costruendo barriere identitarie. Se la situazione che abbiamo descritto ha un qualche fondamento, chi lavora a contatto con i giovani ha un bel campo di lavoro da arare affinché il senso di colpa dei padri non si trasformi nel nichilismo dei figli. E lo strumento con cui tracciare i solchi si chiama educazione della persona al significato della realtà totale.
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